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BLACKOUT A NEW YORK

Il 13 luglio del 1977 un enorme blackout interessò la città di New York. L’elettricità andò via la sera del 13 luglio, e fu solo nel pomeriggio del giorno dopo che ritornò lentamente nei quartieri cittadini. L’unico quartiere a essere risparmiato dal gigantesco blackout fu quello del Queens, dove operava una diversa compagnia erogatrice.

Le ragioni del blackout consistettero in un forte temporale: diversi fulmini colpirono le linee elettriche che rifornivano la città in più punti. Il sovraccarico che ne conseguì costrinse la città al buio.

La situazione degenerò molto rapidamente. Il traffico andò in tilt e iniziò una vera e propria ondata di saccheggi, con migliaia di negozi aperti con la forza e svuotati, ad opera non solo dei ladri “abituali” ma da persone di diversa provenienza sociale. La polizia intervenne, ma in alcuni in alcuni punti si arrivò guerriglia urbana.
Nel 1965, dodici anni prima, un enorme blackout aveva interessato invece l’intera costa est degli Stati Uniti e del Canada. Stavolta il blackout interessò “solo” l’area di New York, abitata comunque da oltre dieci milioni di persone.

New York rimase senza luce anche anni prima, il che ci permette di incontrare le fotografie di René Burri. Nel 1965 il nord-est americano subì un black-out durato fino a 12 ore in alcuni luoghi. A New York, città sviluppata per lo più verticalmente, gli ascensori smisero di funzionare e le torce elettriche piuttosto che le candele diventarono beni preziosi. Le uniche luci per le strade erano i fanali delle auto e l’illuminazione interna degli autobus.
In quell’occasione, René Burri si avventurò tra le strade della città per vivere un’avventura prettamente visiva. Voleva “scrivere con la luce” in una situazione di assenza di luce. Otto rotoli di pellicola 35mm e niente flash. Il resto è nel libro: René Burri – Blackout New York, edizioni Moser.

Le nostre scelte fotografiche si sono orientate sul lavoro di René Burri

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PIRELLONE, LA PRIMA PIETRA

12 luglio 1956. Viene posta la prima pietra del grattacielo Pirelli, il "Pirellone" dei milanesi. L'opera architettonica, progettata dall'arch. Gio Ponti, è destinata alla sede amministrativa del Gruppo Pirelli e sorge al posto di altri stabilimenti del gruppo distrutti dai bombardamenti durante la guerra. Oggi è sede della Regione Lombardia.

Il 12 luglio è comunque un giorno che ci ha restituito delle notizie importanti, già trattate gli anni scorsi. Nel 1854 nasce George Eastman a Waterville, New York (USA). Lui è stato un imprenditore illuminato (fondatore di Kodak), nonché un pioniere della fotografia, avendo prodotto quei cambiamenti che hanno costituito degli autentici punti di non ritorno nella storia della fotografia.
Nei 1904 nasce Pablo Neruda, a Parral (in Cile), mentre nel 1937 Il fotografo Robert Capa pubblica sulla rivista Life la controversa fotografia intitolata Morte di un soldato repubblicano, ritraente un repubblicano che cade a morte durante la guerra civile spagnola. Era il 5 settembre 1936.

Tornando al Pirellone, la sua storia inizia nella primavera del 1955, quando l’azienda Pirelli decise di realizzare nell’area della prima fabbrica, in centro Milano, una nuova sede direzionale e amministrativa, lasciando la produzione operativa nello stabilimento di Bicocca. Il nuovo quartier generale, un grattacielo di 31 piani, 127 metri d’altezza, oltre settemila metri quadri di superficie, doveva rappresentare non solo la rinascita dell’impresa, ma diventare anche il simbolo della ripresa dell’Italia nel dopoguerra.
Dentro al Pirellone, l’architetto Gio Ponti volle arredi e mobili in linea con la pianta dell’edificio, dalla forma dei tavoli al linoleum colorato dei pavimenti. Il 4 aprile del 1960 il “Centro Pirelli” venne inaugurato; la vita nella “torre”, con i suoi open space in stile americano, divenne presto quella di una piccola città nella Milano degli anni Sessanta. Ma dal 1968 in poi iniziarono a susseguirsi i cicli di crisi economica mondiale e, nel 1978, il Grattacielo venne venduto alla Regione Lombardia. (Fonte: Fondazione Pirelli)

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AUSTRALIANA MODERNISTA

Oggi incontriamo una fotografa australiana, Olive Cotton, nata l'11 luglio 1911. Indaghiamo poco su quei luoghi lontani (l’Australia), che comunque esercitano su chi scrive un fascino forte, a causa anche di un viaggio svolto in gioventù (splendido).
Le regole però sono sempre quelle: la donna che si divide tra la famiglia e la professione, in un’emancipazione difficile. E’ bello però notare la sua attenzione per la luce, in tutti gli scatti che abbiamo visto; e lì nasce il suo talento, comunque grande.

Olive Cotton è rinomata per i lavori fotografici pionieristici in stile modernista. Oltre allo Straight, ha sperimentato elementi di pittorialismo. Dalla metà degli anni '30 Cotton ha lavorato presso il Max Dupain Studio di Sydney, dove ha sperimentato primi piani ed effetti di luce; durante la seconda guerra mondiale gestì lei stessa questo studio.
Oltre alla fotografia pubblicitaria e di moda, Cotton ha esplorato i generi della natura morta e del paesaggio. In seguito, ha lavorato come fotografa in studio nella regione del NSW, br>specializzandosi in fotografia di matrimonio e ritratti in studio.
Dopo aver iniziato con una Box Brownie, Cotton ha utilizzato una fotocamera Rolleiflex per tutta la sua carriera.

Olive ha descritto il suo approccio alla fotografia come una “forma di autoespressione e di disegno con la luce”. Nel 2008, il governo australiano ha affermato che il suo lavoro era un omaggio alla natura in tutta la sua gloria e squisitezza; la loro interpretazione racchiude l’interesse di Olive per la scienza e l’arte, che insieme hanno plasmato la sua carriera nella fotografia. Elementi delle sue opere d'arte, come luci e ombre forti, struttura e prospettiva, derivano dal suo amore per la natura, l'arte, la scienza e il suo acuto potere di osservazione.

Amava la spiaggia e la boscaglia, dove vagava costantemente, e non si stancava mai di esplorare terreni familiari, sempre attenta alle sfumature della natura e alle opportunità di scoprire l'inaspettato. Per Olive, lo scatto e la realizzazione dell'immagine erano una cosa sola. Alla fine della sua vita, Olive riuscì a bilanciare il suo ruolo di donna di famiglia con la sua crescente reputazione di fotografa, sfondando in prima linea nella fotografia australiana. Essendo allo stesso tempo innovativa e ampia, con una forte attenzione ai dettagli, la sua produzione ha coperto il pittorialismo, il modernismo e il genere documentario.

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SBARCO ALLEATO IN SICILIA

10 luglio 1943: scatta l’operazione Husky, una delle più imponenti azioni navali mai realizzate. È lo sbarco degli alleati sul suolo siciliano, l’avvio della campagna d’Italia. Il 16 luglio gli americani liberano Agrigento. Nonostante l’accanita resistenza delle forze dell’Asse, la Sicilia viene liberata in soli 38 giorni.
La presa della Sicilia ha rappresentato un primo passo sulla lunga strada dal Nord Africa a Berlino, un punto fermo in quello che Winston Churchill aveva soprannominato il "ventre molle dell'Europa". Robert Capa ha documentato l’avanzata dell'esercito americano attraverso tutta l'isola.

Oggi però non desideriamo occuparci del fotografo ungherese, o almeno non solo. In fotografia occorre contaminarsi, così ci siamo rivolti al cinema, con una pellicola di assoluto interesse: “In guerra per amore”, diretta e interpretata da Pif (2016). Nella trama c’è tutto: l’amore, una mafia nascente, la Sicilia e la guerra nell’isola.
Ecco le vicende. New York, 1943. Arturo Giammarresi (Pif), palermitano trapiantato in America, sogna di sposare la bella conterranea Flora (Miriam Leone), ma lei è già promessa a Carmelo, figlio del braccio destro di Lucky Luciano. L'unico modo per ottenere la mano di Flora è quello di chiederla direttamente al padre della donna, rimasto in Sicilia. Siccome gli Alleati stanno per sbarcare nell’isola, Arturo si arruola nell'esercito americano e approda nel paesino di Crisafulli dove comandano, in ordine sparso, la Madonna, il Duce, il boss locale Don Calò e un pugno di gerarchi fascisti. I destini di Arturo s’incroceranno con quelli degli abitanti di Crisafulli e soprattutto di un tenente dell'esercito yankee entrato in guerra per amore del suo Paese e dotato di un senso alto dell'onore.

La mafia è indigesta al graduato statunitense, che scriverà una lettera al presidente Franklin Delano Roosevelt. Sarà Arturo a consegnarla direttamente al posto di guardia della Casa Bianca, sedendosi poi su una panchina, aspettando fiducioso di essere convocato. Nessuno lo chiamerà, ma Flora, scappata dal matrimonio programmato, raggiungerà Arturo proprio a Washington. I due siederanno insieme sulla panchina. La vita li aveva aspettati.

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