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CANZONE IN VETTA

12 gennaio 1997, Lucio Dalla è in cima alle classifiche con il brano “Canzone”. Lui ci ha sempre abituato bene con i motivi d’ingresso: tutti ritornelli cantabili, anche senza parole. Nel caso del brano in questione, il motivetto si ripete a lungo, rafforzandosi. Del resto, il testo recita così: «Canzone cercala se puoi, Dille che non mi perda mai, Va' per le strade e tra la gente, Diglielo veramente». E in effetti tutto si svolge “on the road”, tra le persone appunto; le stesse che, nel video, girato a Napoli, mostrano un piccolo monitor dove c’è appunto Lucio che canta.

Sono strani a brani del musicista bolognese, col tempo acquistano forza, quasi che riescano a mostrare il coraggio creativo di chi le ha composte. Tra l’altro “Canzone” è stata scritta insieme a Samuele Bersani e pubblicata il 5 agosto 1996. Faceva parte dell’album “Canzoni”, dove si possono ascoltare Ayrton e Disperato Erotico Stomp.

Parlando di Lucio Dalla, volevamo una fotografia che lo caratterizzasse, iconicamente. Ci è venuta in mente quella dove il cantante è ritratto in un primo piano stretto, con un paio di occhiali tondi e in testa lo zuccotto. L’inquadratura taglia il volto appena sotto gli occhi, che guardano in alto. L’autore dell’immagine è Renzo Chiesa, che incontriamo oggi per la prima volta. Lui ci ha raccontato telefonicamente lo scatto, concordato direttamente con Dalla durante una sessione di registrazioni presso gli Stone Castle Studios di Carimate. I due si accordarono per scattare il giorno seguente, durante una pausa di lavoro.

Ecco cosa racconta Chiesa: «Incontro Lucio, simpaticissimo. Lui era appena tornato dalla Germania e mi affida alcuni rullini, chiedendomi di farli sviluppare, per poi recapitarli all’indirizzo di Bologna. Subito dopo, scattiamo le fotografie. scelgo un paio di posizioni con la luce giusta, lo sistemo su una panchina, poi Lucio guarda qui, guarda là, gioco con le sue espressioni, metti gli occhiali, toglili, mettili sopra, e ne escono alla fine due rullini. Fine del servizio. Ci salutiamo». (Renzo Chiesa).

Ringraziamo Renzo Chiesa per la disponibilità e l’immagine che ci ha voluto dedicare.

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CONOSCIAMO BRUNO STEFANI

In fotografia occorre scavare, a lungo; anche perché si scopre sempre qualcosa di nuovo e, soprattutto, qualcuno. E’ il caso di Bruno Stefani, del quale abbiamo parlato a lungo con Roberto Mutti, spesso per noi una fonte d’ispirazione. Dell’autore è subito emersa la modernità, quella derivante da un uso ostinato e convinto del piccolo formato (Leica, per intenderci), in un periodo storico (siamo negli anni ’30) nel quale dominavano negativi più grandi in ambito paesaggistico e turistico. A una riflessione odierna, quello di Stefani non fu un tradimento e nemmeno una presa di posizione opportunistica o di comodo. Fece solo guardare diversamente, in maniera (forse) maggiormente diretta, lasciando al guardante rinnovate possibilità d’interpretazione.

Bruno Stefani, già collaboratore di Rizzoli e del Touring Club Italiano, avrà modo di distinguersi anche nella fotografia industriale. Come leggeremo, nel 1937 il fotografo aprì la propria sede in via Diacono 1 a Milano; ma nel 1933 inizierà una fervida collaborazione con lo studio grafico fondato, a Milano, da Antonio Boggeri. Per quest’ultimo documenterà il contesto produttivo delle acciaierie Dalmine.
Dal lavoro emerge un vivo interesse per le avanguardie, specie per autori quali László Moholy-Nagy: diagonali, tagli netti, punti di vista estremi; la sua però non è solo una visione inedita, perché allarga il proprio sguardo sull’umanità che vive e lavora in quelle strutture, in quelle forme. Stefani è riuscito a restituire una dimensione nobile al lavoro, dove l’acciaio colato, lavorato e plasmato dall’uomo con macchine, faceva emergere una modernità palese e ricercata. A questa dimensione se ne affianca un’altra, quella presente nelle foto in cui ritrasse i momenti di pausa, di svago, nei quali restituì una certa intimità e quotidiana umanità alle persone ritratte, come foto di un «album di famiglia» (Fonte Treccani).

Ci piace che, pur in un ambito industriale, riesca a emergere il fattore umano. E’ bello poter pensare a “un’architettura umana”, anche nel rispetto di quanti al lavoro hanno dedicato vita, sudore e aspirazioni. C’è molta retorica nelle parole che abbiamo scritto? Forse, ma l’amore che riserviamo per le aree proto-industriali ci ha indotto a farlo.

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NON SI FUMA PIU’

10 gennaio 2005. Entra in vigore la legge che proibisce di fumare nei luoghi pubblici al chiuso. Col tempo, le cose erano cambiate, non si fumava più da nessuna parte: al cinema, su autobus e tram, in treno, in aereo. Prima i “non fumatori” erano relegati in aree apposite, piuttosto limitate peraltro; in seguito, la situazione si sarebbe invertita, radicalmente. Il cambiamento ha iniziato a rendersi palese per strada: nessuno ha iniziato ad avere da accendere e in pochi portavano la sigaretta alla bocca.

La questione era anche comportamentale. I più anziani ricorderanno come la sigaretta, in gioventù, rappresentasse quasi un traguardo al raggiungimento dell’età adulta. Il fumo restituiva un fascino presunto, avvalorato anche dalle immagini cinematografiche dei film famosi. Audrey Hepburn, in "Colazione da Tiffany" (1961), portava spesso la sigaretta alla bocca; lo stesso dicasi per Rita Hayworth in "Gilda" (1946). Ecco poi gli attori iconici: James Dean in "Gioventù bruciata" (1955), Marcello Mastroianni ne "La dolce vita" (1960), Clint Eastwood in "Il buono, il brutto e il cattivo" (1966), John Travolta in "Grease" (1978).
Anche la musica veniva in soccorso alla sigaretta; Mango cantava così: «Per averti pagherei, Un milione anche più, Anche l'ultima Malboro darei, Perché tu sei, Oro, oro, oro»; e Claudio Baglioni gli faceva l’eco nel 1982 con “Avrai” «E cento ponti da passare e far suonare la ringhiera, La prima sigaretta che ti fuma in bocca un po' di tosse, Natale di agrifoglio e candeline rosse».

Insomma, l’atto del fumare era sdoganato dalla cultura corrente, tollerato anche da chi non ne aveva il vizio. Oggi, diciamolo, sarebbe meglio smettere; e dovrebbero farlo soprattutto i più incalliti, come chi scrive (ahimè), seguendo i consigli di Vasco Rossi: «Cambiare marca di sigarette, O cercare perfino di smettere, Non è poi così difficile».
Tornando agli attori, e andando a memoria, probabilmente il più convincente tra i fumatori era Humphrey Bogart, e da lui ci faremo aiutare. Ci verrà in soccorso Richard Avedon, e lì andremo sul sicuro.

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JOAN BAEZ, LA VOCE, L’IMPEGNO, L’ENERGIA

Joan Baez è nata il 9 gennaio 1941 a Staten Island (New York). Cantante folk americana e attivista politica, ha interessato il pubblico giovane alla musica folk negli anni '60.

«Non si può scegliere il modo di morire. E nemmeno il giorno. Si può soltanto decidere come vivere. Ora». (Joan Baez). La frase della cantante americana sottintende la sua attitudine principale: il coraggio; al quale seguono l’impegno e l’energia profusa per portarlo avanti. “Folk singer” per eccellenza, ha contaminato la sua musica con altri generi. La sua, comunque, non era una scelta di stile e nemmeno d’opportunità. A nostro avviso, lei cantava dov’era necessario, mettendo al primo posto l’uomo, i suoi diritti, la giustizia, la protesta. Pur traendo ispirazione da Woody Guthrie, il suo menestrello di riferimento, non abitava l’altra America con le sue canzoni, ma fronteggiava le centrali del potere.
Non siamo mai stati dei grandi estimatori di Joan Baez, ma ascoltarla su “Schegge” di RAI 3 ci ha riempiti d’emozione: qualcosa non c’è più, e manca alle idee; il che aggrava le cose.

Figlia di un fisico di origine messicana, si trasferì spesso per via delle attività paterne d’insegnamento e ricerca: a New York, in California e altrove. Acquisì pertanto una scarsa formazione musicale formale. Il suo primo strumento fu l'ukulele, ma presto imparò ad accompagnare la voce con la chitarra.
Il suo primo album da solista, Joan Baez, fu pubblicato nel 1960. La sua attrattività giovanile la misero in prima linea nel revival della musica folk degli anni '60, rendendo popolari le canzoni tradizionali attraverso le sue esibizioni nei caffè, durante i concerti, i festival, in televisione e attraverso i suoi album discografici, che furono best seller dal 1960 al 1964. È stata determinante agli inizi della carriera di Bob Dylan, con il quale è stata sentimentalmente coinvolta per diversi anni. Due delle canzoni con cui è stata maggiormente identificata sono la sua cover di "The Night They Drove Old Dixie Down" dei “The Band” (1971) e "Diamonds and Rust", che ha registrato nell’album con lo stesso nome, pubblicato nel 1975.

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