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PRIMA MACCHINA PER SCRIVERE

1 marzo 1873. La E. Remington and sons, inizia la produzione della prima macchina per scrivere commerciale negli Stati Uniti, con quello che diventerà il layout di tastiera più diffuso al mondo, il QWERTY.

Oggi, però, non possiamo dimenticare che il 1° marzo 2012 ci lasciava Lucio Dalla. Dodici anni senza di lui sono tanti, troppi. Siamo convinti che ci stia guardando di lassù, dalla stella che cantava. «Stella scendi giù, vienimi vicino; Entra dalla finestra, infilati nel mio taschino; Specchiati nel comodino della mia camera da letto; Io sarò lì dietro alla tenda, in silenzio che ti aspetto».

Altra notizia da ricordare. 1° Marzo 2002, le lire cessano la loro circolazione a doppia via con la nuova moneta europea, entrata in vigore il 1° gennaio. Ora la moneta ufficiale, a due mesi dal suo ingresso, è l'Euro, unica valuta scambiabile. E' la fine delle vecchie lire che cessano il loro corso legale per venire gradualmente ritirate dal mercato.

Torniamo alle macchine per scrivere e al layout della tastiera. QWERTY è lo schema più comune per le tastiere alfanumeriche. Il nome deriva dalla sequenza delle lettere dei primi sei tasti della riga superiore della tastiera (Q W E R T Y).
Nella tastiera QWERTY le coppie di lettere maggiormente utilizzate vennero separate, nel tentativo di evitare che i martelletti delle macchine per scrivere si incastrassero, costringendo chi scriveva a sbloccarli manualmente, spesso macchiando il documento.
Lo schema QWERTY tentava anche di dividere i tasti tra le due mani, in modo tale che mentre una mano si posizionava, l'altra colpisse il tasto, il che accelerò la scrittura; anche se poi ne venne studiata una variante, sempre per rendere più veloce la battitura, presentata nel 1932. Tuttavia il sistema QWERTY era ormai consolidato, con dattilografe e dattilografi ormai abituati alla relativa tastiera, così come le aziende produttrici di macchine per scrivere. Così il sistema non venne cambiato.
In Italia le tastiere per PC hanno assunto lo schema QWERTY, mentre quelle per macchine per scrivere si sono mantenute allo schema QZERTY, dove la Z è scambiata con la W e la M si trova a destra della L.

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UN GIORNO IN PIU’

L’anno bisesto non concede divagazioni, perché cade ogni quattro anni. Incontreremo ancora Gioacchino Rossini, ma fotografato da Étienne Carjat e non da Felix Nadar, come accadde anni addietro.

Nel mondo anglosassone l’anno bisestile viene definito proprio “Leap year”, anno del salto. Tra l’altro, il 29 febbraio le ragazze possono chiedere al fidanzato di sposarle. Se lui non accetta, è costretto a regalare 12 paia di guanti: servono per nascondere la mano della fidanzatina rimasta ancora senza anello.
L’anno bisestile non è mai stato visto di buon grado. “Anno bisesto, anno funesto”, dicono ancora i vecchi; e pare che tutto derivi dalla tradizione degli antichi Romani, che dedicavano il 29 febbraio ai defunti. Ci sono anche altri detti meno conosciuti, ma la sostanza non cambia: “anno bisesto tutte le cose van di traverso” e “anno bisestile chi piange e chi stride”.

Come dicevamo, l’anno bisesto ha sempre avuto un rapporto molto stretto con la superstizione e la sfortuna. Non tutte le culture però danno un’accezione negativa all’anno bisestile. Ad esempio, in Irlanda è considerato propizio il giorno del 29 febbraio, meglio conosciuto come Bachelor day, nel quale, come abbiamo visto, le ragazze chiedono ai loro partner di sposarle.
Si suppone che la tradizione abbia origine da un patto che Santa Brigida stipulò con San Patrizio. Si dice che Brigida sia andata da Patrizio per lamentarsi del fatto che le donne dovevano aspettare troppo tempo per sposarsi, perché gli uomini erano lenti a fare la proposta. Si dice che Patrick abbia offerto alle donne il permesso di fare la proposta di matrimonio un giorno ogni sette anni, ma Bridget lo convinse a farlo un giorno ogni quattro.

Le proposte di matrimonio a fine febbraio erano poi incoraggiate perché risultava indesiderabile non essere sposati durante la Quaresima, per via del divieto a congiungersi in matrimonio durante l'osservanza quaresimale. Le persone che erano single entro Pasqua venivano pubblicamente nominate nelle Skellig Lists, Il termine deriva dal nome delle Isole Skellig e in particolare della più grande, Skellig Michael, dove si credeva che la Quaresima iniziasse più tardi rispetto al resto dell'Irlanda, offrendo un'ultima opportunità per sposarsi rapidamente.

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L’INVENZIONE DEL NYLON

Il 28 febbraio 1935 viene inventato il nylon ad opera di Wallace Hume Carothers, un chimico statunitense. La resina sintetica dal dopoguerra in poi ha avuto enorme diffusione, in particolare sotto forma di fibra tessile.

Il riferimento alle calze da donna sorge spontaneo, per le molte icone che ci hanno regalato fotografi del calibro di Jeanloup Sief, Helmut Newton e molti altri.

Anche il cinema ha esaltato il tema delle calze, con molte immagini diventate famose. E’ il caso, ad esempio, di Riso Amaro, diretto da Giuseppe De Santis (1949). Nel film, di fianco a Vittorio Gassman, recita una giovanissima Silvana Mangano nei panni di una mondina. In una scena l’attrice veste delle calze nere tenute a metà coscia.
Tornando al cinema, possiamo affermare come le calze siano state il capo di abbigliamento intimo più vestito e svestito sullo schermo. Le trame le proponevano come una forma di rito: la gestualità del vestire la calza e di toglierla, spesso suscitando scandalo.
Guardando a ritroso, la scena che è rimasta impressa nell’immaginario collettivo è quella di Sophia Loren che fa lo spogliarello davanti a Marcello Mastroianni in Ieri, oggi, domani (1963), per la regia di Vittorio de Sica, sequenza poi replicata nel film di Robert Altman Prêt-à-porter, trent’anni più tardi (1994).
Ovviamente non possiamo dimenticare la scena de Il Laureato, dove Anne Bancroft indossa le calze facendole scivolare lungo la gamba, incantando il giovane Dustin Hoffman: un’immagine cult che ritroviamo nella stessa locandina del film.
E poi ci sono le gambe in autoreggenti di Laura Antonelli, in Malizia di Salvatore Samperi (1967), dove l’attrice è la domestica procace che turba i sogni dell’adolescente Alessandro. Sempre di quegli anni è il film Bella di giorno per la regia di Luis Buñuel con Catherine Deneuve, Jean Sorel e Michel Piccoli.
E non finisce qui, perché vanno ricordate le calze a rete di Marilyn Monroe in Fermata d’autobus (film del 1956) e quelle con la riga di Marlen Dietrich in L’angelo azzurro. Del resto lo stesso Mel Gibson non resiste al fascino dei collant in “What the Women Want”.

Insomma il cinema ci ha regalato momenti in cui poter sognare e fantasticare, di fronte a bellezze di ogni tipo, sensuali e femminili, il più delle volte non volgari. Le calze hanno avuto il loro ruolo fondamentale, capaci di far diventare le donne portatrici di fascino. Ss ne accorse anche Woody Allen, che ebbe modo di dire: «Ho sognato di essere il collant di Ursula Andress».

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UNO SCOZZESE A ROMA

Oggi incontriamo un fotografo scozzese, Robert Turnbull Macpherson, nato 27 febbraio 1814 a Dalkeith, città nel Midlothian, in Scozia (UK). Di lui abbiamo trovato poco, ma volevamo parlarne per fare cenno circa la simpatia che gli stranieri (anche fotografi) hanno sempre dedicato al nostro paese.
Ricordiamo a proposito il Grand Tour, che praticamente non si è fermato mai. L’Italia con le sue bellezze e la sua gente ha sempre attirato anche gli artisti con la macchina fotografica, ciascuno con il suo linguaggio e la motivazione che l’ha spinto da noi.
Il Grand Tour, ribadiamolo, era un lungo viaggio nell'Europa continentale intrapreso dai ricchi dell'aristocrazia europea a partire dal XVIII secolo e destinato a perfezionare la loro conoscenza. Aveva una durata non definita e di solito aveva come destinazione l'Italia. Il fenomeno dei viaggi turistici per come li intendiamo oggi ebbe origine proprio dal Grand Tour.

Ci viene in mente una mostra: “Henri Cartier-Bresson e gli altri, i grandi fotografi e l’Italia”, tenutasi al Palazzo della Ragione di Milano nel 2015. Venivano esposte oltre 200 immagini, a illustrare ottant’anni di storia d’Italia, ma anche, inevitabilmente, della Fotografia. Cartier-Bresson, l’artista del titolo, non era che l’inizio. Si potevano osservare le opere di Robert Capa, David Seymour, Cuchi White, Herbert List e William Klein. Non poteva mancare Sebastião Salgado, con le sue istantanee circa ultimi pescatori di tonni in Sicilia.
E poi vi erano tutti gli altri: da Helmut Newton con le sue “72 ore a Roma” alla Venezia di Alexey Titarenko, alla Milano di Irene Kung; e ancora la città lagunare, imprigionata dalle acque, nelle immagini di Art Kane.
C’era dell’altro, certo. Il Bel Paese veniva offerto sotto varie angolazioni (e interpretazioni): miseria, tristezza e disperazione da un lato, ma anche grandezza, gioia e amore.

La mostra, curata da Giovanna Calvenzi, era enorme, imponente. All’uscita, scendendo le scale di Palazzo della Ragione, quasi si veniva contagiati dalla sindrome di Stendhal, perché ai nostri occhi erano apparse tante mostre in una, con l’Italia sul piedistallo.
Abbiamo compreso una volta di più le ragioni di tanti viaggi e soggiorni nel Bel Paese, compreso quello del fotografo Robert Turnbull Macpherson, che incontriamo oggi.

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