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NASCE “L’OCCHIO DEL SECOLO”

Non potevamo farne a meno, anche se ci eravamo già occupati di lui a inizio mese (3 agosto); ma dimenticare la nascita di Henri Cartier Bresson sarebbe stato un errore: per noi, per tutti, per la fotografia. Il rischio è grande: quello di scrivere parole già dette, di fronte a un personaggio ancora tutto da scoprire, almeno per chi scrive.
Andiamo con ordine. Henri Cartier Bresson nasce a Chanteloup-en-Brie il 22 agosto 1908. E’ stato uno dei fotografi più importanti del ‘900, avendone intuito lo spirito; per questo motivo è passato alla storia come “L’Occhio del Secolo”.
Parlavamo così già lo scorso anno e, per la ricerca del nuovo, ci siamo rivolti a un suo collega e amico: Ferdinando Scianna. Il fotografo siciliano nel suo “Obiettivo ambiguo” (Edizioni Contrasto) scrive: «Se penso a una definizione di Henri Cartier Bresson, la più adatta mi sembra quella di specialista d’evasioni. Non c’è prigione, fisica o intellettuale, nella quale abbiano cercato di rinchiuderlo, dalla quale non sia riuscito a fuggire. Anche dal campo nazista nel quale era prigioniero evase. Lo ripresero due volte; alla terza riuscì».
Non vogliamo fare eco alle parole di Scianna, e neanche usarle per la stesura di quest’articolo; ma nelle immagini del fotografo francese si respira una sorta di libertà, che nasce già dalle scelte. L’istante che cerca, decisivo peraltro, presuppone una padronanza assoluta del tempo che vive, della scena che guarda, dell’esistenza che scorre. Sempre nel libro di Scianna leggiamo come lui tentasse di fuggire anche dal suo compleanno (il novantesimo nel testo), vissuto come una sorta di prigione. «Cosa diavolo significa», si chiedeva «Un compleanno? Si muore e si rinasce ogni giorno».

L’approccio alla fotografia di Bresson è stato controverso, tormentato. E’ arrivato anche a rinnegare la propria arte, più volte. Lui era partito dalla pittura, frequentando personaggi del calibro di Andrè Lhote, un grande maestro. La lezione ricevuta sarà importante: «Non c’è libertà senza disciplina». E poi: «La follia non può dispiegarsi prima che il confine sia stato rigorosamente tracciato. Non può esserci corpo senza scheletro».

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FOTOGRAFIA DA LEGGERE …

In un lunedì d’agosto, ci concediamo un libro da leggere e vedere, soprattutto per coloro che sono ancora in vacanza. Si tratta di “Grandi fotografi a 33 giri”, a cura di Raffaella Perna, Edizioni Postcard.

Stanno tornando di moda e molti li ricordano tra le nostalgie giovanili. Sono i 33 giri, gli LP per dirla tutta: lato A e lato B, la puntina che scende lentamente, il suono (caldo) che si diffonde, la copertina (grande) da tenere tra le mani. Ai tempi con la musica s’intratteneva anche un rapporto tattile e visuale. La custodia di cartone ha fatto la storia della musica, perfino come oggetto di culto. C’era chi, di un disco, ne comprava due copie: una per l’ascolto, l’altra per la conservazione. La busta interna, quella che conteneva l’LP, di solito era di carta bianca e veniva inserita nel contenitore di cartone in modo che il disco non potesse uscire accidentalmente. L’ascolto era poi collettivo, perché, dopo un intenso passaparola, ci si trovava a casa dell’amico fortunato che aveva acquistato l’ultima incisione di suo gusto.
Grandi fotografi a 33 giri è stato pensato come una carrellata di cover che, dagli anni '50 fino a oggi, realizzate dai più grandi fotografi dell’epoca. Ne emerge una duplice valenza, culturale e commerciale, ma anche quello stimolo atto a costruire l’immaginazione visiva d’interpreti e musicisti.
Le copertine degli album, ricordiamolo, sono state uno dei modi principali in cui musicisti e artisti visivi hanno potuto collaborare tra loro. Molte copertine di album famosi sono diventate allo stesso tempo pezzi iconici di pop art.

Circa le fotografie, oltre alla copertina del libro, ne abbiamo scelta un’altra, arbitrariamente, ad di là del volume che abbiamo tra le mani. Si tratta della cover di “Horses”, l’album d’esordio di Patti Smith (1975). Lì la cantante (ma anche fotografa e poetessa) è stata ritratta da Robert Mapplethorpe. Loro hanno condiviso una storia insieme: d’amore, d’amicizia, di stima e rispetto; tutto ciò ci ha sempre affascinato.

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I 70 DI NANNI MORETTI

Ricordiamo il compleanno di Nanni Moretti il giorno dopo. La Giornata Mondiale della Fotografia ha avuto il sopravvento, ma crediamo che il regista possa perdonarci, per i valori che ha sempre richiamato di fronte alle arti in cui crede.

Abbiamo visto di recente il suo ultimo film, “Il Sol dell’Avvenire”; e ci siamo riconciliati col cinema, da troppo tempo consumato con lo streaming televisivo. La pellicola (si può dire ancora così?) scorre confortevolmente, tra meraviglia e momenti di magica commozione. I temi affrontati dalla trama sono tanti: il cinema, la famiglia, la politica, l’amore; tutti raccontati con simpatia. Per un po’ ci viene palesato un baratro, dove tutto pare finito: la politica, forse, ma anche la cultura, con un taglio generazionale che impedisce un dialogo corretto con i propri figli. Alla fine le cose sembrano prendere una giusta direzione, con una scena finale (stupenda!) che strappa qualche lacrima: di quelle buone, che è bello potere asciugare.
Nel film abbiamo riconosciuto il Moretti di sempre: lucido, esplicito, schierato, attento. Certo, cavalca la sinistra, quella che lui vorrebbe; ma l’ha sempre fatto. Come dimenticare la sua esortazione a D’Alema in “Aprile”: «Reagisci, dì qualcosa di sinistra, o anche non di sinistra; ma dì qualcosa».
Nel film emerge fortemente il rapporto tra il regista romano e la musica. La colonna sonora, infatti, è caratterizzata da brani musicali famosi, eccoli: Sono solo parole (Noemi), Think (Aretha Franklin), Voglio vederti danzare (Franco Battiato), Lontano lontano (Luigi Tenco), La canzone dell’amore perduto (Fabrizio De Andrè), Et si tu n’existais pas (Joe Dassin). Voglio vederti danzare, di Franco Battiato, risuona nella sequenza più emozionante di tutto il film, quando gli attori iniziano a ballare con il regista, felici per il nuovo finale che è stato concesso loro.

Di Moretti vogliamo ricordare “Caro Diario”, forse il suo miglior film; di certo quello che abbiamo apprezzato maggiormente. Tre episodi (In Vespa, Le isole, Medici) dove scorrono desideri e paure; ma anche il senso dei film, il significato dell’età, il timore per la malattia. Si tratta di un lavoro che scaglia frammenti, ma ricchissimo nei contenuti, intimamente generoso.

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LA GIORNATA MONDIALE DELLA FOTOGRAFIA

Si celebra il 19 agosto 2023 la tredicesima Giornata Mondiale della Fotografia. E’ stata istituita dal fotografo australiano Korske Ara, che ha scelto lo stesso giorno in cui, nel 1839, François Jean Dominique Arago presentava l’invenzione di Louis Jacques Mandé Daguerre all’Accademia delle Scienze e delle Arti Visive a Parigi: il dagherrotipo.
Nasce la fotografia, per desiderio della Francia; che così segna una data sul calendario del mondo, prendendosene i meriti, ma anche le responsabilità.

A quei tempi l’Europa era diversa, un continente che non aveva ancora conosciuto gli orrori di due guerre mondiali. Anche l’Italia appariva differente, divisa, con qualche vagito di modernità: la ferrovia Napoli-Portici sarebbe stata inaugurata in ottobre.
Il 1839 però è anche l’anno della fotografia. Il 7 Gennaio di quell’anno sempre Arago annunciava l’invenzione di L. Daguerre, quella che sarebbe stata presentata il 19 Agosto.
L’annuncio scatenò molta confusione, soprattutto tra i tanti padri della fotografia. Henry Fox Talbot, scrisse in Francia per informare delle sue scoperte. Lui, che aveva sognato la fotografia durante i soggiorni sul Lago di Como, si vedeva defraudato delle proprie ricerche. Ebbene, il 25 Gennaio 1839 Michael Faraday (quello della gabbia) mostrava ai membri della Royal Institution, di Londra, i disegni fotogenici di William Henry Fox Talbot.
Sappiamo come andò a finire. A Daguerre arrivò il merito circa l’invenzione della fotografia, in Agosto; e alla Francia quello di averla comprata e regalata al mondo intero. Già, perché in quel 1839 s’insinuano sospetti di corruzione. Daguerre riceverà un vitalizio per l’esito delle sue ricerche e anche il figlio di Joseph Nicéphore Niépce (Isidoro), altro padre della fotografia. Ne sa qualcosa Hippolyte Bayard, che nel 1840 espose una sua fotografia nella quale si fingeva annegato e suicida, perché nonostante il suo lavoro nessuno si occupava di lui.

Che dire? I padri della fotografia sono tanti. Oltre ai già citati, sarebbe da ricordare John Frederick William Herschel. A lui si deve la scoperta del fissaggio (l’iposolfito di sodio) ed anche l’introduzione del sostantivo “fotografia”. Lo scrisse in una lettera indirizzata a Fox Talbot il 28 febbraio 1839.

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