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LA PORTA DI BRANDEBURGO

Prima di parlare della Porta di Brandeburgo, siamo costretti a ricordare una notizia nefasta: quella della prima bomba atomica esplosa in guerra. La mattina del 6 agosto 1945, sul cielo di Hiroshima, a un'altezza ottimale stimata di 500 metri dal suolo (in realtà 580), “Little Boy”, con il suo carico di 60 chilogrammi di uranio 235, dimostrò per la prima volta al mondo intero la potenza distruttiva dell’atomica. Perirono 80.000 persone. Sulla città si sollevò un fungo atomico alto 18 Kilometri.

6 agosto 1791, l’architetto tedesco Carl Gotthard Langhans inaugura la Porta di Brandeburgo a Berlino. Alta 26 metri e larga 65, è stata progettata ispirandosi alla porta di ingresso dell’Acropoli di Atene. Durante la Guerra Fredda si trovava a Berlino Est vicino al muro che divise la città dal 1961 al 1989.
La Porta di Brandeburgo ci ricorda i tanti film girati nella città tedesca, generalmente con la Guerra Fredda come argomento. Del resto, Berlino è sempre stata la sede prediletta da molti registi per i loro set cinematografici. Ricordiamo anche che lì l’1 novembre 1895 i fratelli Skladanowsky presentarono le prime immagini in movimento, 58 giorni in anticipo rispetto alla prima del cinematografo: quella dei fratelli Lumière, a Parigi.

Tra i film girati a Berlino ricordiamo “Scandalo Internazionale” (1948) per la regia Billy Wilder, ambientato tra le rovine della Berlino del dopo guerra, attorno alla Porta di Brandeburgo. C’è poi “Un, due, tre!”(1961), diretto sempre da Billy Wilder. Tutto si svolge presso la Porta di Brandeburgo, ma durante la lavorazione del film iniziò la costruzione del muro. Le riprese proseguirono a Monaco di Baviera dove fu ricostruita la porta, emblema della città.
Altre pellicole girate a Berlino sono: “La spia che venne del freddo” (1965), regia Martin Ritt; “Octopussy – Operazione Piovra” (1983), regia John Glen; “Il cielo sopra Berlino” (1987), regia Wim Wenders. Altri se ne potrebbero ricordare, per un monumento (la Porta appunto) evocativo per eccellenza, anche a livello personale. Tra le sue colonne si guarda a est, dove la curiosità spinge lo sguardo a cercare conferme: quelle delle fantasie maturate in anni di storia.

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UNA FOTO DIVERSA PER MARILYN

Il 5 agosto 1962 fu ritrovata nuda, nel suo letto di Los Angeles, senza vita. In mano pare avesse una cornetta del telefono. Seguirono delle indagini e venne stabilito che la causa del decesso era stata un’overdose di barbiturici. Lei era Norma Jean Baker, universalmente nota come Marilyn Monroe. Aveva trentasei anni. Ancora oggi viene ricordata per via di una bellezza “composita”, dove la sensualità si sommava a un atteggiamento infantile; una sorta di bipolarità ammaliante, di cui lei stessa era madre e figlia, serva e padrona.
Marilyn era bella, molto; ma anche sexy di natura. Oltretutto “le piaceva di piacere”, atteggiamento che non teneva nascosto. Lei sommava queste caratteristiche con comportamenti immaturi: il che ha generato una sorta di bomba esplosiva, che la contraddistingueva; e che ha generato un mito.

Abbiamo parlato tante volte dell’attrice americana, utilizzando le molte fotografie che i tanti professionisti le hanno dedicato. Sarebbe inutile ripetere, oggi, come lei abbia rappresentato “il sogno proibito” d’intere generazioni; o anche di quanto fosse insicura e sentimentalmente instabile, dalla personalità fragile, derivata forse da un’infanzia infelice, trascorsa in orfanotrofio. Tutte parole che rafforzerebbero il mito, senza collocarla nella storia.

In questo 5 agosto 2023 volevamo dedicare all’attrice un’immagine che la riguardasse, senza esaltarne l’aspetto. La scelta è caduta su uno scatto di Robert Frank. Guardiamolo. Siamo in una spiaggia degli Stati Uniti. Una donna bruna è sdraiata sulla sabbia. Una bambina solleva al vento una grande bandiera americana. Un ragazzino legge con attenzione un quotidiano, sul quale spicca a chiare lettere il titolo "Marilyn Dead”.
In un unico scatto Robert Frank ha racchiuso un attimo di vita quotidiana e una scaglia di storia: la vita e la morte, la gioia festiva e la tragedia, in un'unica immagine irripetibile.

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NASCE LOUIS ARMSTRONG

Riprendiamo una notizia pubblicata nel 2020, il 4 agosto: nasce Louis Armstrong. C’è un po’ di simpatia, da parte nostra, con in più quella nostalgia che parte da un ascolto domestico per via del padre. A noi è rimasta l’idea di un artista a tutto tondo, che ha trasferito la sua tromba al di fuori del jazz classico, portandola persino nel cinema; ricordiamo a proposito: Alta società, regia di Charles Walters (1956) e Hello, Dolly!, regia di Gene Kelly (1969).

Ci viene in mente un vinile crepitante nel quale Louis suona e canta con Ella Fitzgerald: una voce melodica e calda (quella di lei) che duetta con un’altra, color catrame, quando la tromba non è sulle labbra. Non solo, un altro disco in casa riproduceva i brani dei film di Walt Disney suonati dal trombettista di New Orleans. Lì era il timbro vocale a vincere.

Non dimentichiamo che Louis Armstrong partecipò anche al Festival di San Remo, nel 1968. Insomma per noi Satchmo (soprannome dovuto alla dimensione della bocca) ha rappresentato una presenza importante dell’ascolto domestico, quando ancora i trasduttori, registratori o giradischi che fossero, non erano personali come oggi, ma messi in comune. Il jazz? Era distante e lo è ancora oggi, quando in macchina ascoltiamo “La vie en rose”, con il suo assolo finale di tromba. La memoria aiuta, tra nostalgia e felicità: bene così.

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RICORDANDO HENRI CARTIER BRESSON

E’ la prima volta che celebriamo Henri Cartier Bresson nel giorno della sua dipartita (3 agosto 2004). Lo facciamo volentieri, anche perché per noi lui non è un capitolo chiuso: le sue immagini inducono sempre a riflettere, al di là dell’istante decisivo o dei tanti libri che abbiamo letto. Forse ha ragione Ferdinando Scianna, che in Obiettivo Ambiguo scrive: «E’ inafferrabile HCB, come il mercurio, metallo liquido. A volerlo costringere, acchiappare, immediatamente si frammenta il mille goccioline per subito ricomporsi in un’apparenza compatta».
Parole sante, quelle del fotografo siciliano, che prendono forza da come Bresson si esprimeva sulla fotografia (sempre da Obiettivo ambiguo): «Non bisogna volere nulla, dice HCB, mentre si fanno le fotografie, bisogna dimenticarsi, scomparire per essere integrati. Ma questo implica un processo complesso: significa molto pensare, molto osservare, apprendere, partecipare fino a fondersi con la vita, prima e dopo l’atto fulmineo del prendere-essere presi dall’immagine nella sua conclusa perfezione. La fotografia “cosa mentale”».

Di Bresson ci sono anche i libri, con uno ad aprire un capitolo nuovo nell’editoria fotografica: Images à la Sauvette. Ecco cosa ha detto Gianni Berengo Gardin: «Quando ho iniziato a fotografare, a metà degli anni ’50, Cartier-Bresson aveva da poco pubblicato il suo libro capolavoro Images à la Sauvette. Io lo comprai subito. Tutti noi, fotoamatori o professionisti, lo vedevamo come un mito; per me era a tutti gli effetti un Dio. E’ stato proprio attraverso quel libro, guardando quelle fotografie, che ho deciso che impronta dare alla mia fotografia».
“Images à la Sauvette” è uno dei più grandi libri fotografici mai pubblicati. Uscito nel 1952, con una copertina originale di Matisse, riunisce le fotografie di Henri Cartier-Bresson dei primi venti anni della sua carriera. Si tratta di un’ampia presentazione della sua arte, dove le immagini diventano un vertice emotivo e formale. Questo libro rimane un punto fermo per molti fotografi.

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