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DOISNEAU A MILANO

Dal 9 maggio al 15 ottobre 2023, il Museo Diocesano Carlo Maria Martini di Milano ospita l’antologica di Robert Doisneau (1912-1994), uno dei più importanti fotografi del Novecento.
Per quanto sensibile alla sofferenza umana, ma anche ai piaceri semplici della vita, Robert Doisneau è considerato uno degli esponenti più celebri della “Fotografia Umanistica”, quella che si è diffusa nel 1950. Famoso per le sue immagini su Parigi, Doisneau ha dimostrato una capacità unica di ritrarre – nel suo teatro - personaggi carismatici, episodi divertenti e fugaci momenti di triste ironia e affetto.

Riprendiamo alcune parole del fotografo: «Quello che io cercavo di mostrare era un mondo dove mi sarei sentito bene, dove le persone sarebbero state gentili, dove avrei trovato la tenerezza che speravo di ricevere».
Robert cercava un mondo dedicato a se stesso, ma non per egoismo; semplicemente perché lui aveva bisogno di quello spazio che è tra il vivere soggettivamente e vederlo fare. La sua fotografia (grande, in assoluto) brilla di una ricerca che vive in un confine dove il tempo non conta, ma solo quanto accade davanti l’obiettivo, dopo ore di attesa. Quella linea di demarcazione spesso si sposta in periferia, ma vive anche a Parigi: tra i Bistrot, i negozi, i bambini che giocano.

In un periodo nel quale domina la “Street Photography”, parlando di Doisneau siamo costretti a prenderne le distanze. Lo stile di oggi è troppo rapido e anche i suoi contenuti non ci vengono in aiuto. Robert preferiva le attese, le scoperte, la semplicità. Lui aspettava il miracolo, come ha confessato in un’intervista rilasciata a Frank Horvat: «Quello che occorreva cogliere al di là della composizione o di altri aspetti tecnici».

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UNA PROSPETTIVA DIVERSA

UN RACCONTO

Gigia era rovesciata e anche capovolta. La si vedeva appena coprendosi la testa con un tendalino nero. Lui la guardava incuriosito, non per il fenomeno ottico, ma perché non sapeva quando e perché avrebbe dovuto interrompere lo sguardo: comunque, andava bene anche così. Indugiava sul corpo nudo, che lui conosceva dorato e tonico; eppure adesso percepiva di più, oltre l’immagine del vetro opalino.

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FOTOGRAFIA DA LEGGERE …

Consueto appuntamento del lunedì con “Fotografia da Leggere”. Come avevamo anticipato, ci sarebbe piaciuto parlare di “Un tempo, un luogo” (racconti di fotografia), ma non ne abbiamo ancora terminato la lettura. Ripieghiamo così su un grande classico: “La pratica della fotografia”, di Italo Zannier (Editori Laterza).

Non abbiamo mai nascosto la nostra simpatia per i manuali, specificando però come il tutto non derivasse da una nostalgia “analogica”. I vecchi libri, Feininger in testa (un capolavoro), affrontano il tema fotografico per intero, con la dovuta complessità, senza dimenticare nulla: suggerendo anche vie di approfondimento e applicazione. E’ il caso del volume che abbiamo tra le mani, peraltro acquistato in una vecchia libreria, a Brescia. Il sapore che restituisce è quello d’altri tempi: ottima rilegatura, carta patinata, belle immagini, ampia bibliografia, visione completa di tutto ciò che riguardi l’immagine scattata. Si parte dal procedimento fotografico, per arrivare (addirittura) al restauro e alle catalogazioni delle opere dei fotografi. In mezzo, tutto: gli strumenti, gli accessori, il laboratorio, la ripresa, i generi, la stampa.

La magia inizia già dalla prima pagina, quando l’autore dice: «Il procedimento fotografico prende l’avvio prima che la luce agisca sulla sostanza fotosensibile». E poi: «Fotografare significa, prima di tutto, progettare l’immagine in un percorso che nasce, come processo logico, nella nostra mente, tramite la vista e il pensiero; anticipando il clic dell’otturatore di un apparecchio fotografico». Le cose, nonostante le tecnologie, non sono cambiate di molto.

Italo Zannier passa poi a descrivere l’istante: «Ogni fotografia è la sintesi di un attimo in cui si è coscienti della realtà, durante il quale viene decontestualizzata una porzione di questa realtà, che è in rapporto alla collocazione spazio- temporale del fotografo, a una certa distanza dal soggetto, e in un determinato momento». L’autore aggiunge: «Il momento del click spesso non ammette repliche, quando, come dice Henri Cartier Bresson, quell’attimo è stato veramente unico, decisivo».

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IL PIANO DI KEITH JARRETT

Anticipiamo una notizia dell’8 maggio, perché il lunedì è dedicato alla “Fotografia da Leggere”. Quel giorno, nel 1886, veniva inventata la Coca Cola, la bevanda più celebre al mondo e famosa anche per il brand: primo da sempre per percezione e valore. Ne abbiamo parlato tre anni addietro.

Sempre l’8 maggio ci ricorda un triste evento: perdeva la vita Gilles Villeneuve, pilota canadese della Ferrari, durante le prove del Gran Premio del Belgio. Fu Enzo (il Drake) a volerlo sulla rossa, si dice perché assomigliasse a Nuvolari. Gilles non aveva la “maschera tagliente” come Tazio (il termine è di Lucio Dalla), ma gli stessi muscoli d'olio e d'acciaio. Lui era la macchina, perché la vestiva completandola. Non ha vinto molto, pur riuscendo a disegnare una leggenda: quello del pilota oltre il limite, oltre lo sforzo, oltre le leggi di un “effetto suolo” creato anni prima con le minigonne.

Oggi incontriamo un pianista jazz, che chi scrive ha conosciuto da poco (purtroppo), su suggerimento di un amico. Ascolta ripetutamente My Song, anche in auto; e ne ammira la dolcezza, la purezza, l’empatia con lo strumento. Come si può comprendere, le nostre non sono le parole di un esperto, ma purtroppo il jazz è un mare magnum nel quale è difficile orientarsi, soprattutto quando si è cresciuti ascoltando le preferenze paterne: Louis Armstrong, Benny Goodman, Duke Ellington, Ella Fitzgerald e le note “bianche” di Glenn Miller.

Circa il fotografo, ci viene in aiuto Guido Harari, con una fotografia significante per formalismo e narrazione. Come abbiamo detto spesso, ci piacciono le immagini nelle quali l’artista è messo in secondo piano rispetto all’arte di cui dispone. In ciò che vediamo, il pianoforte incombe (quasi) su Jarrett: com’è giusto che sia.

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