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A HARD DAY’S NIGHT

16 aprile 1964 – Negli EMI Studios di Londra (Abbey Road Studios) i Beatles registrano “A Hard Day’s Night”, uno dei loro primi singoli leggendari della band. Il brano era contento nel lato A del 45 giri, che presentava nel side B “I Should Have Know Better”. La canzone veicolò il successo dell'album e del film omonimi.

Ci proviamo: un colpo di plettro sul Sol11 e ne riconosciamo la sonorità, ma dopo l’esecuzione diventa difficile. Non abbiamo la Rickenbacker elettrica di George Harrison, però (ovviamente) la differenza non è lì. Il chitarrista dei Fab Four, nel brano, tecnicamente supera se stesso, soprattutto nella parte solista. S’intuiscono poi le armonie che faranno la fortuna dei quattro e della nuova musica, che i Beatles regaleranno al mondo.

«It's been a hard day's night, And I've been working like a dog, It's been a hard day's night, I should be sleeping like a log». Questa è la prima strofa della canzone: «È stata la notte di una giornata faticosa, e io ho lavorato come un cane, è stata la notte di una giornata faticosa, e io dovrei dormire come un ghiro». Il titolo tradotto è "La notte di una dura giornata". Pare fosse un modo di dire del batterista Ringo Starr, riferendosi a una lunga giornata di lavoro terminata a notte fonda.

Sempre nel 1964 i Beatles debuttarono sul grande schermo con il film “A Hard Day’s Night”, che presentava una giornata "tipica" nella vita dei Fab Four. Diretta da Richard Lester, la pellicola ha catturato un momento epocale che è riuscito a definire una generazione.

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NADAR E GLI IMPRESSIONISTI

Parigi, mercoledì 15 aprile 1874. Il fotografo Felix Nadar apre le porte del suo studio, al 35 di Boulevard des Capucines, inaugurando la mostra di un gruppo di giovani pittori, riuniti sotto il nome di "Société anonyme des artistes peintres, sculpteurs, graveurs".
Boicottati dal Salon Ufficiale parigino, il gruppo, guidato da Claude Monet e composto tra gli altri da Cézanne, Degas, Pissarro e Renoir, decise di sfidare la massima istituzione artistica francese organizzando una mostra in proprio e in anticipo rispetto su quella del Salon: un gesto di rottura in linea con la portata rivoluzionaria della loro tecnica pittorica.

Il termine “Impressionisti” deriva dal titolo di un articolo, dispregiativo, del critico Louis Leroy, che prese spunto dal dipinto “Impressione, sole nascente” di Claude Monet, esposto, con altri, in occasione della mostra del 1874 presso lo studio del fotografo Nadar.
Il giornalista intitolò la sua recensione “La mostra degli impressionisti”. Per tutta risposta, i giovani pittori decisero da quel momento di adottare il nome di "Impressionisti", con cui entrarono nella Storia dell'Arte, influenzando profondamente le successive correnti artistiche di fine secolo e del primo Novecento.

Boulevard des Capucines divenne famoso anche anni dopo, il 28 dicembre 1895. Quel giorno, al Salon indien del Grand Café, vennero proiettati dieci cortometraggi dei fratelli Lumière, tra i quali il famosissimo “La Sortie de l’usine Lumière”. Se ai fratelli Auguste e Louis Lumière va il merito dell'invenzione della macchina cinematografica, è al loro padre Antoine (pittore e fotografo) che si deve l'intuizione che farà del film uno spettacolo di successo. È lui a lanciare l'idea della prima proiezione pubblica a pagamento.
Una curiosità: l’insegna che campeggiava sullo studio di Felix Nadar era stata creata proprio da Antoine Lumiére.

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SALUTIAMO MARY QUANT

Abbiamo sentito la notizia per radio, mentre eravamo in viaggio: «Addio a Mary Quant. La stilista si è spenta serenamente questa mattina nella sua casa del Surrey, lo ha annunciato la famiglia». Subito si sono accesi i ricordi: quelli infantili, a dire il vero; perché eravamo troppo giovani per comprendere le ideologie dei Sixties. Le ragazze in famiglia (zie e cugine) però, più adulte di noi, avevano sforbiciato le gonne, abbondantemente sopra il ginocchio. Le loro scarpe non avevano tacchi e portavano i capelli corti; in più ballavano agitando i fianchi, con disinvoltura. Solo più tardi ci siamo resi conto come quella gonna, trasformata mini, fosse diventata un inno alla libertà e probabilmente una spinta verso l’emancipazione. Di certo la creazione di Mary Quant si aggiunge a quanto di bello ci hanno riservato gli anni ’60: la musica, il cinema, l’arte e gli emblemi giovanili.

Ripetiamolo: non sappiamo se Mary Quant abbia generato un cambiamento o se viceversa sia stata in grado di cavalcare i mutamenti degli anni ’60. Sta di fatto che la sua invenzione si diffuse in tutto il mondo velocemente, e anche con facilità. La minigonna, perché di questo stiamo parlando, divenne uno dei simboli dell’epoca: una creazione destinata a sovvertire le regole formali precedenti, diventando un segnale di quanto sarebbe accaduto, di rivoluzionario, negli anni Sessanta. Mary, che lo volesse o meno, aveva creato la bandiera di una ribellione, destinata a consolidarsi nella Swinging London dei Sixties. Del resto, «Le vere creatrici della minigonna sono le ragazze che si vedono per strada», così diceva Mary Quant.

Mary Quant nasce l’11 febbraio 1930 a Blackheath, un quartiere di Londra. Nel 1955 apre la sua prima boutique - il «Bazaar» - a Londra, in King’s Road, e raggiunge presto una discreta notorietà. Il successo arriva nel 1965, quando lancia la sua minigonna. Per il nome si è ispirata a un altro simbolo degli anni sessanta, la «mini», cioè la vettura della casa automobilistica Austin. Mary Quant decise di affidare l’immagine del proprio capo d’abbigliamento a una modella che diventerà un mito della Swinging London, quella Twiggy che ispirerà una nuova bellezza al femminile: quella di una donna magra, adolescenziale, e dalle forme appena accennate.
Mary Quant arriverà alla nomina di Cavaliere della Corona, onorificenza ricevuta dalle mani di Elisabetta nel 1966, un anno dopo i Beatles.

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LEE JEFFRIES A MILANO

Abbiamo visto, presso il Museo Diocesano Carlo Maria Martini di Milano, la personale di Lee Jeffries dal titolo: Portraits, l’anima oltre l’immagine. Il fotografo, nato il 6 maggio 1971 a Bolton, è diventato la voce dei poveri e degli emarginati. L’esposizione presentava una cinquantina d’immagini in bianco e nero e a colori che hanno catturato i volti di quell’umanità nascosta e invisibile che popola le strade delle grandi metropoli dell’Europa e degli Stati Uniti.

Lee Jeffries, note di vita

Fotografo autodidatta, Jeffries inizia la sua carriera quasi per caso, nel giorno che precedeva la maratona di Londra del 2008 quando scatta una fotografia a una giovane ragazza senzatetto che sedeva all’ingresso di un negozio; rimproverato per averlo fatto senza autorizzazione, Jeffries si ferma a parlare con lei, a interrogarla sul suo passato, a stabilire un contatto che andasse al di là della semplice curiosità per scavare nel profondo dell’animo della persona che aveva di fronte.
Da allora inizia a interessarsi e a documentare le vite degli homeless, passando dai vicoli di Los Angeles fino alle zone più nascoste e pericolose delle città della Francia e dell’Italia. Grazie al suo sguardo e alla sua arte spirituale, come lui stesso è solito definirla, Lee Jeffries fa emergere le persone senza fissa dimora dal buio in cui sono reclusi e cerca di ridare luce e dignità a ogni essere umano. Il suo stile è caratterizzato da inquadrature in primo piano fortemente contrastate, e da interazioni molto ravvicinate con i soggetti, uomini e donne che vivono ai margini della società, incontrati per le strade del mondo.

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