Skip to main content

4 MARZO 1943, NASCE LUCIO

Diremo cose già scritte, magari in altro modo; accompagnate dalle immagini che preferiamo, per ragioni affettive. Tutto iniziava durante il San Remo 1971. La data di nascita di Lucio era diventata una canzone. Le parole di Paola Pallottino (docente al DAMS) raccontavano di una ragazza madre sedicenne, che aveva concepito un figlio con un “bell’uomo venuto dal mare”, un soldato alleato. La nonna paterna, che la guerra l’aveva vissuta, arrivò a commuoversi. A chi scrive, il bambino di allora, è rimasto il ricordo di un brano suonato più volte, col rispetto di chi vorrebbe comprendere.
Non era complessa, quella canzone; e nemmeno difficile. Eppure toccava, per via del respiro temporale: il figlio dell’amore improvviso è cresciuto, beve vino, bestemmia (almeno nella versione non censurata) e frequenta le puttane del porto. I primi anni ’70 erano quelli nei quali Lucio Dalla frequentava i margini, come ne “La casa in riva al mare”, del 1971; o in “Piazza Grande”, incisa nel 1972. Un carcerato e un clochard, questi sono i personaggi delle due ballate precedenti, sempre narrati con un respiro temporale allungato, infinito.

Arriveranno altri brani, maggiormente complessi, difficili anche: icone musicali indimenticabili, da ascoltare più volte, anche nei film che le hanno usate; tipo “Il nome del figlio” (di Francesca Archibugi), dove i protagonisti cantano “Telefonami tra vent’anni”, forse una delle più belle canzoni dell’autore bolognese. «Invece pensami, tra vent'anni pensami. Io con la barba più bianca. E una valigia in mano. Con la bici da corsa. E gli occhiali da sole», questa è una strofa di quel brano, e in essa c’è tutta l’arte di Lucio, la sua fantasia, il suo omaggio al mondo. Già, lui ha ancora molto da regalarci, perché troppo bravo, come diceva Pupi Avati. Ci ha scritto una lettera (“Caro amico ti scrivo”) e dobbiamo conservarla nel cassetto buono, quasi fosse un augurio. Adesso consoliamoci col suo clarinetto. Indossiamo le cuffie e ascoltiamo “You’ve Got a Friend”, di Carole King, per clarinetto solo. A suonare è lui, Lucio: le parole non servono.

Continua a leggere

JESSICA, LA POCAHONTAS DI ANNIE

«Dove i ricordi prendono piede e non ti lasciano. Dove tutti i tuoi desideri sono un ordine. Dove un intero nuovo mondo ti aspetta», così recita un claim di “Year of a Million Dreams”, la campagna per i Disney Parks firmata Annie Leibovitz. La “formula” è la stessa del 2006, quando, in occasione dell’uscita di “Il Mago di Oz” (versione ristaurata), immortalò artisti e star del cinema vestiti come i protagonisti del romanzo di L. Frank Baum. Ecco che David Beckam si trova a sfidare il drago per la sua “bella addormentata” e che Federer finisca per impersonare Re Artù. Jessica Biel, per Annie Leibovitz, diventa Pocahontas, come nelle due immagini che vediamo (2008).

Annie Leibovitz è una delle fotografe più influenti del nostro tempo e la sua carriera si snoda su quasi cinque decenni, a partire dagli anni '70 quando si è dedicata a immortalare il mondo del rock-and-roll. Le sue immagini documentano la cultura contemporanea attraverso l'occhio e l'intuizione dell'artista, facendo leva su una sorprendente capacità di mettere a nudo i tratti più intimi anche di personaggi la cui notorietà sembrerebbe aver già svelato ogni segreto.

Ciò che ci è sempre piaciuto nelle foto di Annie Leibovitz è la capacità di costruire una sceneggiatura attorno al personaggio fotografato. I suoi sono ritratti ambientati, dove lei mette la firma anche su ciò che fa esaltare il soggetto. Non ci sorprende che la Walt Disney abbia scelto proprio la fotografa statunitense per la sua campagna. Solo lei sarebbe stata capace di ricostruire le fiabe agli occhi di tutti e di renderle riconoscibili.

Continua a leggere

DU GUST IS MEGL CHE ‘UAN

Siamo nel 1994. Lo spot si svolge in spiaggia, in piena estate. In sottofondo si sente Miriam Makeba che canta “Pata Pata”. Un ragazzo si avvicina a due belle pin up in costume, per corteggiarle. Descrive il proprio gelato (un Maxibon) e pronuncia la frase poi diventata un tormentone: « Du gust is megl che ‘uan». Nel ricordare quella pubblicità commettiamo un errore, perché Stefano Accorsi è molto di più del testimonial di un prodotto. Certo è che sin da allora quasi s’intuivano i fermenti di una carriera poi diventata luminosa, comunque partita tempo prima già col cinema e il teatro (un suo amore). In ogni caso lo spot del Maxibon non era poi così banale, dietro alla macchina da presa c’era Daniele Lucchetti, un affermato regista.

Stefano Accorsi è riuscito in poco tempo a liberarsi dell’immagine da ragazzo vacanziero, ma ha fatto molto di più. Con gli anni, è stato capace di staccarsi da dosso lo stereotipo dell'uomo che non vuole responsabilità. I suoi primi film lo etichettavano come un giovane adulto che non vuole crescere, un personaggio molto vicino al pubblico e che quindi l’ha fatto crescere. Il suo ultimo cinema è più difficile, ma l’apprezzamento della critica è arrivato ugualmente.

Dell’attore bolognese vogliamo citare un libro: “Album Stefano Accorsi”, la vita, la carriera e le passioni di un grande uomo del cinema italiano (Gruppo Editoriale, 2021). Stefano Accorsi, racconta nel volume (anche fotografico) la nascita della carriera e i momenti più significativi della sua biografia, dove si fondono vita privata e professionale. Una storia di passione, capacità e caparbietà che prende vita anche con il contributo di grandi fotografi come Gianmarco Chieregato, Enrico De Luigi, Luca Babini, Massimo Sestini e Oliviero Toscani.

Del libro riportiamo la copertina

Continua a leggere

THE DARK SIDE OF THE MOON, 50 ANNI

1° marzo. Le nostre origini bolognesi non possono che farci ricordare Lucio Dalla, deceduto nel 2012 proprio il primo giorno del suo mese (era nato il 4 marzo 1943, come avrebbe cantato la canzone a sua firma). Ricordiamo la telefonata di un amico: «Hai sentito, è morto Lucio Dalla». Accendiamo la televisione, suonano “Anna e Marco”. La notizia è tremenda, di quelle che ti staccano dal mondo reale, un po’ come l’11 settembre o il terremoto del Friuli. Addio Lucio.

Continuiamo a parlare di musica, perché forse Dalla vorrebbe così. “The Dark Side of the Moon”, l’album dei Pink Floyd, compie cinquant’anni. Sembra impossibile; ma riflettendo banalmente, ci accorgiamo di possedere quel disco in tutti i supporti disponibili nel tempo: dall’LP, fino alla musica liquida, passando per il CD e l’immancabile cassetta. Ecco, sì: ci manca il DAT, ma quello era roba da ricchi. Che dire? Non volevamo che i sussulti tecnologici ci privassero dell’opera completa, perché il capolavoro dei Pink Floyd va ascoltato per intero, dall’inizio alla fine. Ancora oggi, nella playlist dell’iPhone, l’album è salvato per intero, perché durante l’anno, in auto, c’è sempre un momento per ascoltarlo tutto.
Spesso quando si parla di musica rock, o anche di jazz, ci si riferisce a dei dischi che abbiamo cambiato la musica, influenzandone il divenire. Ebbene, “The Dark Side of the Moon” ha modificato anche l’ascolto di tutti, educandolo quasi.
C’è altro da aggiungere? Poco, a dire il vero. L’emozione va vissuta e descriverla è impossibile. Ci piace tutto, di quell’album, persino le tracce sonore esterne che anticipano Money, una presenza terrena in un lavoro che trascende; e pure il battito cardiaco campionato. Da esso riceviamo la giusta tensione per affrontare l’ascolto.

Per una volta facciamo un’eccezione: la seconda fotografia, quella che poi verrà condivisa sui social, è la copertina del disco. Il vero capolavoro è lì e non volevamo edulcorarlo.

Continua a leggere