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LUCIA MOHOLY, ORGOGLIO DI DONNA

“Tra moglie e marito non mettere il dito”, così recita un antico proverbio; ma le cose peggiorano quando di mezzo c’è la professione, perché anni di dominio maschile hanno sempre messo nell’ombra la coniuge, se pure eccellente. La fotografia, dicevamo giorni addietro, è stata una via vera di emancipazione per molte donne, perché non richieste al lavoro dalle esigenze industriali ed economiche del momento. Il prezzo da pagare è stato alto, però, per molte professioniste, che hanno visto morire anche i legami di coppia. E’ il caso di Lucia Moholy, che ha lottato tutta la vita per “fare da sola”, nonostante tutto. Cerchiamo di conoscerne la storia.

Non è facile essere “la moglie di” qualcuno, soprattutto se famoso, e anche in fotografia. È stato così per Lucia Moholy, una fotografa nota ai più solo per essere stata la moglie del celebre pittore e fotografo ungherese László Moholy-Nagy, uno dei massimi esponenti del Bauhaus. Molti dei suoi lavori, infatti, erano spesso attribuiti a suo marito, oppure a Walter Gropius, l’architetto tedesco fondatore della Scuola del Bauhaus. Eppure, Lucia Moholy è riuscita, a fatica, a ritagliarsi uno spazio nel mondo della fotografia, lottando per vedersi riconosciute le foto che realizzava e che costituiscono una delle più importanti testimonianze della scuola di arte e disegno che si affermò in Germania negli anni che precedettero l’avvento del Nazismo.

Da un certo momento in poi, Lucia ha deciso di operare da sola. Con l’avvento del nazismo, e la fuga di molti dalla Germania, il suo ex marito la invitò a trasferirsi negli Stati Uniti, offrendole una cattedra all’università. Lucia rifiutò. Forse non aveva più voglia di dover dipendere da un uomo, di dover essere riconoscente a colui che l’aveva sempre tenuta nell’ombra.

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SALUTIAMO LA BERSAGLIERA

Le agenzie battono la notizia di continuo, assieme ai giornali on line. Ci ha lasciato Gina Lollobrigida, attrice e artista vivace, simbolo di un’era: quella dell’Italia post bellica, che andava solo in treno a ancora non guardava la televisione. I nostri nonni potrebbero ricordarla volentieri, forse anche i padri; ma anche a noi, oggi, è arrivata qualche scaglia della “Lollo” di “Pane amore e fantasia”, il film di Comencini che la rese celebre (1953).
Correva sempre, Gina, nelle scene della pellicola, innamorata di un carabiniere veneto, ma corteggiata da un altro milite, quel Vittorio De Sica col quale ha duettato durante la trama. Le vicende si svolgono a Castel San Pietro Romano, in un paesaggio neorealistico, dove verranno girate le riprese di “Pane amore e gelosia”, già l’anno dopo.
La “Lollo” (così era soprannominata l’attrice) ha infuso in entrambi i film l’entusiasmo vero che l’ha sempre accompagnata nella vita, anche quando la carriera l’ha eletta a sex symbol dello schermo. Già, perché lei era bella, molto; pronta a spettinarsi per piacere di più, come fanno gli umili: coloro che non si vergognano della curiosità che li anima, per comprendere la giusta direzione della vita.

Ha visto un bel mondo, Gina Lollobrigida; ma non ha mai dimenticato le proprie origini, che forse le hanno infuso l’energia della creatività. Oggi, qui, vogliamo ricordarne la figura umana. Forse sarebbe giusto menzionare film e premi, vicende e curiosità; ma preferiamo fermarci alle corse della bersagliera, a quella voce popolana sempre urlata, a quel coraggio che parte dal nulla: dove il possesso non esiste, e la vita corre sul desiderio di potersi esprimere, anche con i sentimenti.
Bersagliera, arrivederci.

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FOTOGRAFIA DA LEGGERE …

Consueto appuntamento del lunedì con “Fotografia da leggere”. Questa volta ci siamo rivolti alla nostalgia, perché Giovanni Gastel, l’autore scelto, ci manca, tanto. Il suo libro è apparso inaspettato mentre cercavamo (inutilmente) di mettere ordine tra i volumi di fotografia: quasi un segno del destino. Ci stiamo riferendo a “Un eterno istante, la mia vita” (Mondadori Electa), il romanzo biografico a firma del fotografo.
Nel volume Giovanni si racconta con lucidità, forse per istanti, ma allungati laddove serve. Ne emerge un uomo che ha potuto intravedere la vita, toccandola oggettivamente poche volte. Una fortuna? Non sempre, e forse è per questo che nelle sue parole scritte (anche poesie) emerge un po’ di malinconia, quella buona: un sentimento capace di favorire la creatività e di far raggiungere una felicità vera, profonda, non omologata nella contentezza.
Mentre teniamo il volume tra le mani, senza aprirlo, ricordiamo un altro aspetto percepibile tra le parole: l’amore. Giovanni è stato amato, molto; e ha contraccambiato la sua prossimità con la stessa moneta, condita con una generosità spontanea, innata.
Sì, ringrazia la vita, il nostro: non esplicitamente, ma nel senso dello scritto. Non ne nasconde i vantaggi ricevuti, eppure ne palesa le difficoltà incontrate: altolocate anche queste, però difficili da affrontare, perché immense, infinite, trascinate nel tempo.
Nel libro di un fotografo, non poteva mancare l’analisi dello strumento nell’evoluzione della propria professionalità: il grande formato, poi diventato piccolo, con tutto quanto ne è conseguito.
Giovanni, nello scritto, ci racconta anche una curiosità su Polaroid, ma questa la lasciamo a chi leggerà.

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DE ROBERTO, VERISTA E FOTOGRAFO

Non è la prima volta che esaminiamo il rapporto tra fotografia e parola scritta. Nel tempo, abbiamo incontrato: Georges Simenon, Giovanni Verga, Émile Zola e altri; scrittori famosi che si sono dedicati alla fotografia. Come abbiamo ripetuto più volte, il fatto che un letterato si cimenti nella pratica dello scatto non entra nel merito del legame tra “click” e letteratura. Peraltro, Verga e Zola nascono entrambi nel 1840 e in gioventù incontrano una fotografia nata da poco, in piena espansione; è cos’ facile pensare che proprio intellettuali come loro siano stati invogliati a occuparsene. Non dimentichiamo, poi, come proprio l’arte “dello scatto” risulti fortemente contaminante e contagiosa, tanto da stimolare non solo scrittori, ma anche artisti in genere (Picasso docet). Ne abbiamo parlato presentando il volume “Io non sono fotografo …”, Contrasto editore. Là abbiamo incontrato pittori, scultori, poeti, scrittori, viaggiatori, architetti, cineasti, intellettuali noti e stimati. Tutti si sono interessati alla fotografia, di tanto in tanto: in modo furtivo, clandestino, confidenziale, a volte anche nevrotico. In alcuni casi, sempre la fotografia, si collocava ai margini della loro vita o dell’arte che apparteneva loro, ma spesso risultava essere in piena sintonia con quest’ultima, laddove occorreva: nell’atelier, nella stanza privata, sul tavolo di lavoro, in giardino, sulla spiaggia, in vacanza, in viaggio; e poi, in amicizia, in amore, con la follia, durante la solitudine. Questo per dire che non è l’individuo artista a dimostrare il legame tra la fotografia e la pratica espressiva nella quale si cimenta, bensì il processo autoriale e il suo meccanismo attuativo.
Nel caso della letteratura, è lo sguardo allungato degli scrittori a cementare il suo rapporto con l’immagine scattata. L’autore che incontriamo oggi è fortemente esplicito in tal senso: inizia a raccontare la Sicilia dalle emozioni che ne ha ricevuto. Fotografie e parole in lui corrono affiancate, supportandosi. Un esempio quasi unico.

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