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LA BELLA DEL NORD

Alla fine degli anni cinquanta, Roma è una metropoli viva. Siamo in pieno boom economico ed esplode la voglia di vivere, in una delle città più belle del mondo. A Cinecittà si girano film italiani e produzioni cinematografiche americane. A Roma arrivano non solo attori e registi affermati, ma anche aspiranti attori e attrici, avventurieri e intellettuali, artisti e aristocratici, tutti alla ricerca del successo.

Icone di quella Roma furono soprattutto i fotografi scandalistici che, dopo l'uscita del film di Federico Fellini La dolce vita, dal soprannome di uno dei fotografi saranno da allora in poi chiamati paparazzi.

Non mancava neppure un notevole fermento culturale. Nei bar e nei salotti discutevano intellettuali come Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini, giornalisti come Ennio Flaiano e Vittorio Veltroni, mentre nelle gallerie d'arte esponeva Mario Schifano e in via Margutta avevano lo studio Renato Guttuso e Novella Parigini. L'ambiente intellettuale non disdegnava la mondanità: alle feste e alle mostre, nei salotti e nelle terrazze; diversi mondi s’incontrano e si mescolano.

Anita Ekberg, la bella del nord, è diventata il simbolo di quella Roma. «Marcello, come here», pronuncia l’attrice in abito da sera dentro la Fontana di trevi, nella scena iconica della pellicola “La Dolce Vita”, anche se poi Fellini racconta molto di più. Nei piani sequenza emergono le contraddizioni, i vizi e le virtù dell’uomo e della società, nell’ubriacatura del mondo contemporaneo.

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IL REGISTA DI BLOW UP

Insieme a Fellini, Bergman e Kurosawa, Michelangelo Antonioni è accreditato per aver definito il film d'arte. Eppure il cinema di Antonioni è oggi riconosciuto anche per essere fuggito di fronte a ogni facile categorizzazione. Tra i contributi più importanti delle sue creazioni in pellicola vi è la descrizione della noia post-boom, evidente nelle trasformate abitudini di vita e di svago delle classi medie e alte italiane. Rilevando i profondi cambiamenti tecnologici, politici e psicologici nell'Italia del secondo dopoguerra, Antonioni ha deciso di esplorare le ambiguità di una nazione improvvisamente alienata e dislocata.

Antonioni manipola abilmente i bordi della struttura cinematografica. Lo spazio negativo è prominente come il positivo, il silenzio è forte come il rumore, l'assenza è palpabile come la presenza e la passività diventa il motore di una forza come azione diretta. Lasciando domande senza risposta e i punti della trama irresoluti, rinunciando a esposizione, suspense, sentimentalismo e altre aree di sicurezza cinematografiche, Antonioni rilascia lo spettatore in una nebbia meravigliosa e densamente stratificata per contemplare i dilemmi imprecisi e le infinite possibilità dei suoi personaggi. Le sue grandi e ingombranti domande si riversano nel mondo fuori dal cinema e al di là del tempo.

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LE TASCHE PIENE DI SASSI

Su YouTube c’è il video del brano “Le tasche piene di sassi”, quello del titolo. Il clip è ispirato al film “Lenny”, di Bob Fosse; e Jovanotti l'ha descritto dicendo: «Lo spettatore che vedrà il video non sentirà quello che io dico e non mi vedrà nemmeno cantare, ma vedrà un uomo da solo, al buio, illuminato solo da un occhio di bue che racconta una storia a un pubblico in penombra, che racconta una storia che è la vita, racconta forse la sua vita, forse racconta la vita di quelli tra il pubblico».

Noi siamo affezionati a quella canzone, peraltro dedicata alla madre deceduta da poco; ma la consideriamo anche una prova di maturità del dj romano, un punto d’arrivo mai immaginato ai tempi di “Positivo” o “Sono un ragazzo fortunato”. E invece eccolo lì, Jovanotti, sul palco esistenziale della vita, come i grandi interpreti dello spettacolo. Ci accorgiamo, tra l’altro, che ha scritto libri, dedicandosi anche alla pittura e ai viaggi conoscitivi. Non vogliamo banalizzare, ma proprio lui, a dispetto di un’aria scanzonata sempre presente nel suo manifestarsi, ha scritto e messo in musica le più belle frasi d’amore che si possano ricordare. Sono quelle che ci fanno rivivere la felicità che corre su un filo: separazione sottile tra l’amare da morire e il morire d’amore. Già, perché la vita è tutta lì, in quel brivido che corre tra i contrasti dell’anima, con poche parole per goderne il gusto. «Vienimi a prendere, mi vien da piangere. Mi riconosci ho le scarpe piene di passi, la faccia piena di schiaffi, il cuore pieno di battiti e gli occhi pieni di te».

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FOTOGRAFIA DA LEGGERE …

Consueto appuntamento del lunedì con fotografia da leggere. Questa volta ci rivolgiamo a un regista cinematografico, che ha unito immagini e parole, in un libro dal titolo “Una volta”. Questo è un lavoro del maestro del cinema Wim Wenders, pubblicato per la prima volta nel 1993. Presenta più di trecento fotografie dello stesso Wenders disposte per sequenze e accompagnate da sessanta piccole storie, scritte dal regista stesso, che iniziano tutte con il medesimo incipit: “Una volta”.

Il libro è introdotto da un nuovo testo di Leonetta Bentivoglio, seguito da un lungo dialogo fra la giornalista e Wim Wenders, in cui i due ragionano dei temi legati ai legami tra le immagini e le parole, al cinema, ai viaggi, all’amore e alla solitudine. Seguono sessanta storie, in cui si alternano testi e fotografie, che dialogano tra loro in un viaggio straordinario attraversando paesi differenti.

Le storie del volume sono brevi istantanee narrative, reliquie del presente o rovine del nostro tempo che non custodiscono memoria né portano tradizione. Wenders ci mostra il paesaggio della nostra epoca, luoghi e situazioni dove viviamo i nostri rapporti con gli altri e dove ambientiamo i nostri sentimenti.

“Una volta” di Wim Wenders. Edizioni Contrasto, 2015

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