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STEVIE WONDER, LA VOCE DEL SOUL

Non siamo dei profondi conoscitori di Stevie Wonder, ma la sua voce è entrata spesso nella nostra vita, passando per le fessure dell’ascolto. Lo ricordiamo facilmente per le sue collaborazioni. Ha partecipato, in coppia con Gabriella Ferri, al Festival di Sanremo 1969 con Se tu ragazzo mio, brano composto dalla stessa Ferri. Partecipò a USA for Africa, duettando con artisti come Michael Jackson e Lionel Richie, autori di We Are the World.
Nel 1982 collaborò con Paul McCartney nel brano sull'integrazione razziale Ebony and Ivory, inserito nell'album Tug of War di McCartney. Negli anni novanta lo abbiamo ascoltato con Whitney Houston nel brano We Didn't Know, nona traccia dell'album I'm Your Baby Tonight. Nel 1995 ha duettato con Frank Sinatra nell'album Duets II e il 9 giugno del 1998 si è esibito con Luciano Pavarotti durante uno dei tanti concerti a scopo benefico Pavarotti & Friends.

C’è dell’altro, però; ed esattamente un film: “La Signora in Rosso”, diretto e interpretato da Gene Wilder. Si tratta di una commedia brillante, remake del film francese Certi piccolissimi peccati. La pellicola è leggera, forse troppo; ma nella colonna sonora troneggia I Just Called to Say I Love You, brano scritto ed interpretato da Stevie Wonder, che è valso al film un Premio Oscar ed un Golden Globe.

Nella trama, Teddy Pierce, un buon padre di famiglia, lavora come responsabile in uno studio pubblicitario affermato. Un giorno trova Charlotte, affascinante donna inglese di rosso vestita: l'ultima modella scoperta dal suo superiore; la giovane, non sapendo di essere osservata, balla per qualche istante sulla grata del ricircolo dell'aria, imitando Marilyn Monroe. Teddy ne rimane colpito e comincia un corteggiamento assiduo, che gli restituirà solo grattacapi. Alla fine si ritroverà in accappatoio su un cornicione al ventesimo piano di un palazzo del centro.
Poca roba, insomma; ma il tema musicale riesce a fare da collante, tenendo insieme gli equivoci che l’innamorato pazzo dovrà affrontare.

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DALLA MONTAGNA ALLA CITTA’

Non dimentichiamolo: oggi è la Festa della Mamma. Ne abbiamo parlato il 10 maggio, perché quel giorno, nel 1908, si celebrava la figura della madre per la prima volta.
Ripetiamo quanto dicemmo. La madre, la mamma, fa eco a tutta l’esistenza dell’umanità: lei conosce il pianto, la gioia, il perdono, la vita. E lo sanno bene quanti si trovino in cattive acque. «Mamma mia» esclamano, desiderando quell’abbraccio universale che li ha sempre protetti. Ricordare la donna madre, quindi, non è solo l’occasione per una festività, ma un modo per nutrire rispetto per tutta l’umanità: quella alla quale apparteniamo.

Oggi incontriamo Mario Gabinio, nato a Torino il 12 maggio 1871. Lui è stato un fotografo, alpinista e ferroviere. La sua attività si è svolta prevalentemente nell'area della città di Torino e della regione Piemonte, a partire dagli ultimi due decenni dell'ottocento.

Le fotografie di Mario Gabinio sono sorprendenti, perché mutevoli nel tempo. Dalla montagna arriva in città, con consapevolezza, sviluppando linguaggi nuovi. Ritrova l’architettura, il movimento, la sperimentazione. Seguendo i principî di Lázló Moholy-Nagy diffusi in ambito fotografico, creò le immagini di luce in movimento (La giostra Zeppelin 1934, che riportiamo). Nell’osservare le sue immagini, dobbiamo considerare il periodo storico. Siamo a fine ‘800, quando il ritratto focalizzava ancora gli autori. Gabinio non se ne occupa e arriva al successo, alla fine internazionale, con la forza di chi è padrone dello strumento e di quanto occorre per raccontare.
Nei primi anni del ‘900 iniziò a partecipare a rassegne internazionali: dal 1934 al 1937; da Stoccolma a Vienna, a Bruxelles, Johannesburg, Ottawa, Parigi, Boston e Londra. Espose immagini di natura morta che s’inserivano nel dibattito sulla fotografia artistica e sul "pittorialismo". Lui però non si esprime, non prende posizioni dialettiche, fuori luogo per una personalità del suo rango. Fotografa e basta, arricchendo un archivio tutto da consultare.

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LO STILISTA DEL ROSSO

L’11 maggio 1932 nasce Valentino, lo stilista. A lui si deve il “Rosso Valentino”, un’ispirazione che arriva quando il creatore di moda femminile è ancora un ragazzo. È stata un'anziana signora vestita di scarlatto all'Opera di Barcellona a catturare la sua attenzione. Subito ne rimane affascinato, catturato da quel colore che non si può non notare, accendendosi tra il bianco, il blu e il nero della folla. Valentino avrebbe detto: «Fra tutti i colori indossati dalle altre donne, quella in rosso mi è sembrata unica, isolata nel suo splendore. Non l’ho mai dimenticata. Penso che una donna vestita di rosso sia sempre meravigliosa».

Lo stilista di Voghera ci offre l’opportunità di incontrare ancora una volta Gian Paolo Barbieri, il noto fotografo. Lui nasce dal cinema, almeno come fonte d’ispirazione. Ecco cosa ha detto: «Per me il cinema rappresentava qualcosa di sacro; impazzivo per la bellezza che m’ispirava sin dallo schermo bianco. Lì è nata la mia passione. Il “noir” degli anni ’40 mi ha restituito tantissimo: per luci e composizione. Il neorealismo era un’altra cosa, maggiormente immediato, forse più artigianale. La Terra Trema (Luchino Visconti, 1948 ndr.) arrivò a scioccarmi; poi giunse Pasolini, che mi diede il “La”.

Come ci ha già detto Barbieri, il cinema noir (specie quello americano) ha costituito una base importante per lui, perché gli ha permesso di capire come le attrici potessero risultare così belle se illuminate da una luce particolare che le rendeva ancora più affascinanti. E’ nata così la sua sperimentazione, con delle lampadine infilate nei tubi della stufa. Barbieri era un’autodidatta, non avendo frequentato nessuna scuola di fotografia.
Il cinema gli ha comunque dato il senso del movimento e l’occasione di portare la moda italiana, nata sul fondo bianco della pedana, in esterno, restituendole un’anima diversa.

Classificato nel 1968 dalla rivista Stern come uno dei quattordici migliori fotografi di moda al mondo, Barbieri vince il premio Lucie Award nel 2018 come Miglior Fotografo di Moda Internazionale.

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MAMMA, LA PRIMA VOLTA

Il 10 maggio 1908 viene celebrata per la prima volta la Festa della Mamma.

Stiamo anticipando i tempi, ma forse è giusto così. Domenica prossima in molti dovranno ricordarsi di dedicare alla madre un pensiero, del resto è stata lei a dedicarci la vita, in un gesto d’amore.
La madre, la mamma, fa eco a tutta l’esistenza dell’umanità: lei conosce il pianto, la gioia, il perdono, la vita. E lo sanno bene quanti si trovino in cattive acque. «Mamma mia» esclamano, desiderando quell’abbraccio universale che li ha sempre protetti. Ricordare la donna madre, quindi, non è solo l’occasione per una festività, ma un modo per nutrire rispetto per tutta l’umanità: quella alla quale apparteniamo.

Senza essere retorici, la Festa della Mamma sancisce il ruolo cruciale delle madri nella società. E’ importante riflettere sulle sfide che le madri affrontano quotidianamente. Loro svolgono un ruolo fondamentale nello sviluppo emotivo, educativo e sociale dei loro figli, contribuendo in modo significativo al benessere delle famiglie e delle comunità.

Circa le fotografie, ci stiamo ripetendo, con due grandi autori: Dorothea Lange e Robert Capa. Lì possiamo riconoscere tutto il simbolismo della realtà di madre. Si tratta d’immagini datate e viste più volte, ma soprattutto quella del fotografo di Budapest ci mostra un gesto che oggi non riconosciamo più: quella del bambino che si attacca alla gonna della mamma. Nei nostri giorni, al massimo incontriamo un mano nella mano e nulla più. E’ cambiato qualcosa anche lì, ma il ruolo materno rimane, anche nelle auto che, incolonnate, accompagnano i bambini a scuola. A riprenderli, forse, ci saranno i nonni; ma quei fanciulli chiameranno “mamma” in più di un’occasione durante la loro esistenza. La seconda domenica di maggio sarà lì anche per loro.

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