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DENISE COLOMB, UMANISTA POETICA

Oggi conosciamo un’altra donna fotografa, che va ad allungare la lista di quelle che abbiamo già incontrato. Lei è Denise Colomb, nata a Parigi il 1° aprile 1902.
Sebbene sia conosciuta soprattutto per i suoi ritratti di celebrità nel mondo dell'arte, realizzati tra il 1959 e il 1960, Denise Colomb ha prodotto anche numerose fotografie durante i suoi viaggi. Affine allo spirito della fotografia umanista del dopoguerra, il suo lavoro può essere collocato nella tradizione francese del realismo poetico, per il quale la composizione dell'immagine è importante quanto l'interesse per la condizione umana.

Rimanendo agli artisti ritratti, Denise attraverso le sue fotografie prive di artificio ha saputo catturare la solitudine dell'artista di fronte alla propria creazione. E’ straordinario, comunque, come lei sia riuscita ad affiancare ai ritratti lavori di viaggio e anche il reportage. Questo indica una vivacità di fondo e anche una curiosità innata.
Tornando alla fotografia umanista, possiamo affermare senza tema di smentite come Denise ne abbia seguito i dettami, persino con coraggio. In lei è facilmente riconoscibile la tendenza a osservare maggiormente il quotidiano, la strada; cercando di catturare, oltre alla scena in sé, anche le emozioni dei protagonisti, da cui il realismo poetico.

Sempre alla ricerca di nuove tecniche per la sua ricerca visiva, ha praticato il fotomontaggio, la sovrapposizione e la solarizzazione, in particolare per i suoi ritratti e nudi femminili.

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JIMI HENDRIX BRUCIA LA CHITARRA

31 marzo 1967. Siamo a Londra, all’Astoria di Finsbury Park, teatro nato come cinema nel 1930, ma che a partire dai primi anni ’60 ospitava anche concerti di musica rock. Jimi Hendrix vive nella capitale britannica da sei mesi. Non è ancora famoso e suona “da spalla” per altri. Quella sera di marzo brucerà la sua prima chitarra, una decisione presa assieme al suo manager per attirare l’attenzione della stampa, andando oltre a quanto già facevano gli Who, che distruggevano lo strumento. L’episodio non conquistò le prime pagine e venne ritenuto un’incidente. Hendrix replicò le fiamme alla sua “sei corde” nel mese di giugno in California, al Monterey International Pop Festival: lì l’effetto fu dirompente.

Il clima vacanziero ci permette di divagare un po’. Parleremo di chitarre, una passione condivisa da chi adesso scrive, pur non essendo un abile musicista. La “sei corde” simbolo di Jimi Hendrix era la Fender Stratocaster, anche se nel corso della sua carriera ha utilizzato modelli di altre marche. Si trattava di una chitarra “destra”, con delle modifiche.

Come già detto in passato, l’inventore della chitarra di Hendrix è stato Leo Fender che, insieme a George Fullerton, sviluppò la prima chitarra elettrica solid-body prodotta in serie, nel 1948, chiamandola Fender Broadcaster (ribattezzata Telecaster nel 1950). Nel 1951 viene presentato il Fender Precision Bass, il primo basso elettrico al mondo, e nel 1954 viene immessa sul mercato la Fender Stratocaster. Più elegante e tecnicamente migliorata rispetto la Telecaster, è stata la prima chitarra a presentare tre pickup elettrici (invece di due) e il braccio tremolo utilizzato per gli effetti vibrato. Il suo suono pulito e nitido gli è valso un fedele seguito tra i chitarristi, rivaleggiato solo dai seguaci della Les Paul di Gibson.
La nascita di quelle Fender ha segnato la rivoluzione degli anni Sessanta. E ancora oggi la Fender, “chitarra rock” per eccellenza, non sfigura se suonata dai musicisti contemporanei.

Poter maneggiare una Stratocaster restituisce una soddisfazione enorme, anche se non si è dei chitarristi provetti. Basta infilare il jack e accendere l’ampli, aggiungere un velo di distorsione, imbracciare lo spallaccio e riconoscerne il suono. Ciò che si sente ha un sapore antico e indimenticabile: quello della storia.

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LA CHITARRA DI TRACY

Tracy Chapman nasce il 30 marzo 1964 a Cleveland, nell’ Ohio (USA). Divenne famosa alla fine degli anni '80 grazie al successo dell’album di debutto (che portava il suo nome) e del brano "Fast Car", una storia di delusione, disperazione, desiderio e di una sopravvivenza agognata.

Sono tante le ragioni che ci fanno apprezzare la cantante statunitense, ma su tutte la chitarra assieme alla voce. La forza delle sue canzoni sta nel fatto che si sorreggono da sole. Non servono né il basso, tantomeno la batteria. Si possono eliminare anche gli archi, la chitarra elettrica, i cori e il pianoforte. Basta la voce che canta una storia, con dell’altro che entra delicatamente. “Fast Car” ne è un esempio, ma anche Talkin’ Bout a Revolution; con l’intro della sei corde da fare invidia.
Ascoltiamo spesso Tracy Chapman, soprattutto di notte e in auto. Ci piace riconoscere “Give Me One Reason”, un blues puro dagli accordi che conosciamo. Nel brano entreranno anche gli altri strumenti, ma non disturbano: anzi; la forza della cantante rimane.

Tornando a “Fast Car”, possiamo definirla una canzone di sempre, una di quelle che salvano il tempo, un po’ come certe fotografie. Racconta un desiderio che è di tutti: buttare dietro alle spalle ingiustizie, ansie e fuggire altrove. Tra le note, si parla di una ragazza che vive in condizioni disagiate, perché deve prendersi cura della famiglia. Ed è nel supermercato dove lavora che sogna l’auto del ragazzo che ama per lasciarsi alle spalle tristezza e mediocrità.

Tracy Chapman ha sempre voluto che le sue canzoni rimanessero semplici, con un’anima acustica, analogica potremmo dire. Erano le storie a dover vincere, l’essenza del suo lavoro; anche a scapito di arrangiamenti, strumenti ridondanti, incisioni complicate.

Le origini di Tracy hanno rappresentato l’ispirazione alla sua musica. I suoi genitori divorziarono quando lei aveva quattro anni e, assieme a sua sorella, è stata cresciuta dalla madre, che le ha fatto ascoltare una grande varietà di musica. Rimaneva la consapevolezza delle condizioni sociali delle donne di colore, poi andate in musica.

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ABBAS ATTAR, NATO FOTOGRAFO

Ci sono fotografi dei quali ci si accorge in ritardo, pur conoscendone l’esistenza. Non può essere chiamata in causa solo la distrazione dell’appassionato, ma la stessa vita dell’autore, quella che non ha mai concesso attimi di riflessione o pause nell’operatività.

Ecco cosa leggiamo sul sito della Magnum, la nota agenzia. Abbas occupava una nicchia a cavallo tra il fotogiornalismo e l’arte. «Mi descrivevo come un fotoreporter e ne ero molto orgoglioso», ha scritto Abbas per Magnum. «La scelta prevedeva due possibilità: pensare a me stesso come un fotoreporter o come un artista. Non era per umiltà che mi definivo fotoreporter, ma per arroganza. Pensavo che il fotogiornalismo fosse superiore, ma oggigiorno ho cambiato idea, perché anche se utilizzo le tecniche di un fotoreporter e vengo pubblicato su riviste e giornali, sto lavorando alle cose in profondità e per lunghi periodi di tempo. Non mi limito a creare storie su ciò che sta accadendo. Sto creando storie sul mio modo di vedere cosa sta succedendo».

Secondo Abbas esistono due approcci alla fotografia: «Uno è scrivere con la luce e l’altro è disegnare con la luce». Il fotografo ha poi aggiunto: «Per la scuola di Henri Cartier-Bresson la singola immagine è fondamentale. A mio parere, non è mai stato questo il punto. Le mie foto fanno sempre parte di una serie, di un saggio. Ogni immagine dovrebbe essere abbastanza bella da reggere da sola, ma il suo valore è parte di qualcosa di più grande».
Anche se la sua biografia ufficiale afferma che era un “fotografo nato”, Abbas ha raccontato di come il viaggio a New Orleans, nel 1968, lo abbia reso un “professionista”; questo perché, attraverso la realizzazione del suo primo saggio fotografico, è riuscito a comprendere come la sequenza delle immagini sia essenziale per costruire una narrazione. Ha scritto: «All'epoca non lo sapevo, ma l'importanza che attribuisco alla sequenza del mio lavoro è iniziata lì per lì. Chi conosce il mio lavoro sa che quando mi definisco fotografo intendo dire uno che scrive con la luce». (Fonte: sito Magnum).

Non sappiamo se definire Abbas reporter o artista, ma il dilemma non ci riguarda. Può e deve essere annoverato tra i grandi di sempre.

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