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ELTON JOHN IN RUSSIA

21 maggio 1979. A Elton John è stato permesso di cantare dal vivo a Leningrado, la prima rockstar straniera a poterlo fare. Eravamo in piena guerra fredda. Non era mai stato concesso a nessun cantante o gruppo occidentale di entrare in Unione Sovietica prima quel 21 maggio.

La nostra Russia, ai tempi, aveva i contorni sfumati. L’abbiamo letta nei libri di Aleksandr Isaevič Solženicyn (Premio Nobel nel 1970): Una giornata di Ivan Denisovič e Arcipelago Gulag. C’era poco d’altro, tramandato dai film di spionaggio, che aumentavano la nostra curiosità. Ricordiamo a proposito il Dottor Stranamore, una pellicola del 1964 scritta e diretta da Stanley Kubrick. Al centro della trama, c’è l’ipotesi di un conflitto nucleare tra USA e URSS. Il generale Jack D. Ripper, comandante di una base aerea statunitense, trasmette al suo stormo di 34 bombardieri strategici B-52, in quel momento in volo, l’ordine del piano “R”, la reazione nucleare ad un attacco nemico, allo scopo di iniziare una guerra nucleare contro l’Unione Sovietica. Il film si sviluppa proprio attorno a quest’attacco nucleare, che ricalca il clima reale vissuto in quegli anni.

Anche Don Camillo ci fa conoscere un po’ di Russia col film “Il Compagno Don Camillo” (1965). Brescello, il paese di don Camillo e Peppone, viene gemellato con una cittadina russa. Una delegazione municipale, guidata dal sindaco, si reca perciò nella patria del socialismo reale per perfezionare il gemellaggio. Don Camillo ricatta Peppone e lo costringe a includerlo nella comitiva, sotto falso nome. Nel viaggio avrà modo di mettere in crisi ideologica la maggior parte dei compagni, con i luoghi comuni e le dicerie del tempo. Ne accadranno di tutti i colori, nella comicità che Fernandel e Gino Cervi sapevano creare.

Recentemente, per ricordare quella Russia, ci è venuto in soccorso “Diario Russo”, dello scrittore John Steinbeck, con le fotografie dell’amico Robert Capa. I due partirono assieme alla scoperta di quel nemico che era stato l’alleato più forte nella seconda guerra mondiale: l’Unione Sovietica. Le pagine del diario e le fotografie che raccontano la vita a Mosca, Kiev, Stalingrado e nella Georgia sono l’essenza di un viaggio straordinario e un documento storico unico di un’epoca. Steinbeck e Capa riescono nel loro intento di “dare un volto al nemico”, troppo spesso disumanizzato nella retorica politica. Una notevole lezione di umanità, che ci ricorda ancor oggi l’importanza di conoscere concretamente luoghi e persone per superare pregiudizi e ignoranza. (Fonte: sinossi del libro).

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LA DOLCE VITA VINCE LA PALMA D’ORO A CANNES

20 maggio 1960. La Dolce Vita di Federico Fellini vince la Palma d’oro al 13° Festival internazionale del cinema di Cannes. Il film rimane uno dei capolavori della storia del cinema e per il regista rappresenta il punto di passaggio dal neorealismo alle pellicole d’arte.
La Dolce Vita venne girato dal grande fotografo Otello Martelli in Totalscope in uno straordinario bianco e nero, con una ricchezza di toni rara a vedersi.
Marcello Mastroianni e i suoi amici si muovevano all’interno di un vuoto abbagliante e preoccupante: era il vecchio mondo che incombeva sulla modernità. Nel film venne fatta emergere una continua altalena di umori: dall’allegria alla preoccupazione, all’euforia, alla noia, alla disperazione, al terrore, fino alla rassegnazione. Tutto questo scosse gli spettatori, spingendoli a guardare al mondo con altri occhi.

Viaggiamo indietro con la mente. Siamo a Roma nel 1960, una donna bionda in abito da sera entra in Fontana di Trevi. Lei si chiama Anita Ekberg, bellissima interprete de “La Dolce Vita”, di Federico Fellini, nella scena maggiormente iconica di tutto il film.br Pochi sanno però che quella scena è la ricostruzione di un evento reale. Due anni prima, Ekberg aveva trascorso la serata con un fotografo di scena, Pierluigi Praturlon, al nightclub Rancho Grande di Roma. Per alleviare i suoi piedi doloranti, sulla strada di casa era entrata nella fontana. Praturlon, che non andava mai da nessuna parte senza la sua Leica, ha illuminato la scena con i fari della sua auto e ha colto il momento in una fotografia che Fellini ha poi visto su una rivista, Tempo Illustrato.

Praturlon, a quel tempo, era l'unico fotografo italiano in grado di parlare correntemente l'inglese (conosceva cinque lingue). Per questo motivo, egli è stato in grado di sviluppare rapporti diretti con attori e registi, lavorando come il fotografo ufficiale delle icone del cinema come Sophia Loren, Claudia Cardinale, Marcello Mastroianni, Monica Vitti, Anita Ekberg, Raquel Welch, Peter Sellers, Frank Sinatra, Ursula Andress e molti altri.
Insomma, Pierluigi non era un paparazzo, anche perché non ha mai rovinato una celebrità. Claudia Cardinale lo definiva come un gentiluomo.
Avendo lavorato all'inizio della sua carriera come fotoreporter, Praturlon è stato in grado di portare sul set cinematografico il senso del reportage; anzi, gli è attribuito il merito di aver trasformato l'arte del fotografo di scena. Prima del suo arrivo, almeno in Italia, le star si limitavano a posare per le immagini fisse durante le pause delle riprese; Praturlon ha vagato per i set, catturandoli mentre svolgevano il loro lavoro.

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KATI HORNA, FOTOGRAFA ITINERANTE

Da tempo incontriamo molte donne fotografe e questo ci piace. La fotografia, crediamo, ha rappresentato una via per l’emancipazione, visto che lui e lei partivano alla pari, in un mestiere nuovo. Per Kati Horna, l’autrice che incontriamo oggi, la situazione è più complessa, perché per lei la fotografia ha rappresentato una forma di espressione politica e artistica. Non solo, nel suo lavoro riconosciamo i principi della fotografia surrealista. L’emancipazione però rimane, perché le ha permesso di esprimere i suoi punti di vista politici, in un momento nel quale questa possibilità era molto limitata per le donne.

Un’altra componente può completare l’analisi del lavoro di Kati Horna ed è quella del viaggio. Lei ha condotto un’esistenza da fuggiasca, fino all’ultimo approdo in Messico. Ecco cosa ha dichiarato la fotografa: «Sono fuggita dall'Ungheria, sono fuggita da Berlino, sono fuggita da Parigi e ho lasciato tutto a Barcellona». Associando un senso di migrazione ed esilio al mezzo fotografico prescelto, ha aggiunto: «È per vagabondi come me. Dato che i miei vestiti si sono strappati lungo il percorso, ho scelto la fotografia». Per Horna, la fotografia rappresentava non solo una carriera che poteva tradursi oltre i confini, ma una forma di espressione politica e artistica. Ha utilizzato il mezzo per rendere visibili le relazioni sociali e riflettere sul proprio percorso da Budapest a Città del Messico, dove ha vissuto in una comunità di artisti europei dopo il 1939.

Di Kati Horna non possiamo dimenticare la produzione fotografica della guerra civile spagnola, dove il suo approccio è stato intimo e sottile. Lei ha narrato il dramma umano, allontanandosi dalla crudeltà diretta della guerra, trasferendo il dolore e la morte in un campo immaginario, ma verificabile nelle idee.

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MARTIN MUNKÁCSI, IL FOTOGRAFO ISPIRATORE

Martin Munkácsi ha fatto la storia, cambiando per sempre il mondo del fotogiornalismo e della fotografia di moda. Ha scattato la prima immagine fashion per Harper's Bazaar su una spiaggia di Long Island. Nel corso degli anni '20 e '30, questo fotografo ungherese poco conosciuto ritrasse alcune delle persone e degli eventi più affascinanti del suo tempo e influenzò alcuni dei più grandi fotografi del mondo, da Richard Avedon a Henri Cartier-Bresson a Edward Steichen. Munkácsi è nato il 18 maggio 1896 a Cluj-Napoca in Ungheria (oggi Romania) e ha iniziato la sua carriera di fotogiornalismo a Budapest nel 1921 (quando il genere era agli albori), realizzando principalmente articoli sportivi per un giornale locale.
Andò per la prima volta a Berlino nel 1928 e iniziò a lavorare per alcune riviste, con incarichi sia locali che mondiali. Ha anche documentato lo storico "Giorno di Potsdam", fotografando sia Hitler che Goebbels. Tuttavia, non passò molto tempo prima che diventasse dolorosamente consapevole di dove fosse diretta la Germania. Essere ebreo con l’avvicinarsi degli anni ’30 divenne un problema, per ovvie ragioni.
Usando principalmente una fotocamera 4×5 Speed Graphic, (erano gli anni '30), combinava la sensibilità formale e quella del fotografo d'azione. Era piuttosto ammirato da artisti del calibro di Henri Cartier-Bresson e Richard Avedon. Anche se la sua macchina fotografica preferita, Martin Munkácsi Speed Graphic, era un po’ fuori dagli schemi tradizionali.

Ciò che rendeva Munkácsi diverso dai suoi coetanei era la sua capacità di catturare l'azione in un modo che nessuno faceva all'epoca. Una volta emigrato negli Stati Uniti, non passò molto tempo prima che diventasse il fotografo principale di Harper's Bazaar. La maggior parte della moda dell’epoca era piuttosto messa in scena. La sua fotografia del 1933 di una modella che corre lungo la spiaggia divenne rivoluzionaria! Molti editori lo considerano il vero inizio della “fotografia di moda”, ma per Munkácsi si è trattato semplicemente di una naturale evoluzione della sua fotografia di cronaca e di sport.
Una volta a New York, divenne una star, compreso il primo nudo mai pubblicato su una rivista di moda. In realtà lavorò per tutte le grandi riviste dell'epoca, oltre a fotografare le star di Hollywood.

A proposito del fotografo ungherese, Richard Avedon ebbe il modo di dire: « Oggi il mondo di quella che viene chiamata moda è popolato dai figli di Munkácsi, i suoi eredi. È stata la mia prima lezione di fotografia, e ne sono seguite molte altre, tutte apprese da Munkácsi, anche se non l'ho mai incontrato. Ha portato il gusto per la felicità, l’onestà e l’amore per le donne in quella che, prima di lui, era un’arte senza gioia e bugiarda».

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