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LA FESTA DEL GATTO

Il 17 febbraio, in Italia, è stato proclamato come la giornata Nazionale del Gatto. Riprendiamo una notizia già pubblicata lo scorso anno, incontrando un altro fotografo.
Charles Pierre Baudelaire diceva: «Come quell'enormi sfingi distese per l'eternità in nobile posa nel deserto sabbioso, i gatti scrutano il nulla senza curiosità, calmi e saggi». Già, è difficile che quei felini esprimano sentimenti o sensazioni. Il loro sguardo penetra, sempre in caccia tra le cose del mondo. C’è poi l’imprevedibilità: senza preavviso possono saltare ovunque, padroni come sono dello spazio e del loro tempo.

Del resto, i gatti vivono non solo in molte case, ma anche nei diversi modi di dire del nostro linguaggio, come per esempio: "quando il gatto non c'è, i topi ballano", "non c'è trippa per gatti" e “tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino”.
C’è poi dell’altro. Quante volte abbiamo detto: «Qui gatta ci cova»; e lo facevamo avendo il sospetto che qualcosa non procedesse per il giusto verso, perché coperto da un trucco o da un’intenzione nascosta. Non solo, in molte occasioni abbiamo affermato di avere una “gatta da pelare”, magari bella (nel senso di difficoltosa); questo di fronte a un’incombenza fastidiosa o di una situazione intricata. C’è anche chi “fa la gatta morta”, ed è colui che maschera la propria natura sotto un’apparenza mite e irreprensibile. Non mancano poi quelli che “giocano come il gatto col topo” (abitudine felina), coloro cioè che tormentano l’avversario debole, sapendo di poterlo sconfiggere in ogni momento.

La situazione si complica, e forse ha ragione Pablo Neruda quando dice: «Io non conosco il gatto. So tutto sulla vita e i suoi misteri, ma non sono mai riuscito a decifrare il gatto». Detti popolari a parte, c’è chi ama i gatti per come sono, soprattutto in casa. Meravigliano le loro abitudini e il concedersi alle carezze con parsimonia, con anche gli atteggiamenti che assumono quando vogliono qualcosa. In molti dicono che non siano fedeli, più affezionati alla casa e molto meno al padrone. Del resto, non sono di nessuno: liberi di fare qualsiasi cosa, a loro piacimento. Giusto così: sono gatti.

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IL CONTE GUIDO CALVI E LA FOTOGRAFIA

Il 16 febbraio 1827 nasce a Parma Guido Calvi, ma non è solo la data a farci scrivere su di lui, perché in questi giorni si sta tenendo una mostra proprio sul lavoro del nobile parmense: “Scatti da pioniere, Ritratti fotografici del Conte Calvi”. L’esposizione si tiene presso la Pinacoteca Stuard, a Parma; dove vengono proposti una serie di scatti originali e altri riprodotti a grandezza naturale del ricco materiale fotografico di Guido Calvi, donato dagli eredi al Comune di Parma.
La piccola mostra vuole sottolineare l’importanza dell’aristocratico parmigiano che fu un pioniere della nuova arte in città e protagonista del passaggio dalla dagherrotipia (immagine su rame non riproducibile) alla fotografia (immagine riproducibile su carta).

Sul comunicato stampa leggiamo. Guido Calvi seppe ritagliarsi un ruolo chiave in città anche grazie ai risultati ottenuti nel campo della ritrattistica. L’interesse per il nuovo mezzo di rappresentazione, dapprima riservato alla cerchia di amici e conoscenti, si trasformò in una vera passione con l’aumentare delle richieste di posa da parte dei concittadini: dame, gentiluomini, prelati, militari e artisti facevano a gara per essere immortalati in scatti che ancora oggi s’impongono per la resa psicologica e gli atteggiamenti ricercati e seducenti. Le fotografie giunte sino a noi mostrano l’umanità varia di una città che da capitale di un piccolo stato viveva il traumatico passaggio a città di provincia del nuovo regno sabaudo, senza perdere però la sua caratteristica elegante mitezza.

E’ interessante notare come, dopo il 1939, la fotografia seppe diffondersi in Europa. Nel comunicato stampa della mostra si fa cenno a Josephine Dubray. Lei, come abbiamo già visto, arriva a Genova nel 1842. Il 5 luglio dello stesso anno, sempre a Genova, dà alla luce un bambino battezzato con il nome di Luigi Augusto: il cognome è Dubray, perché di padre ignoto.
Nel giugno 1844 Josephine lascia Genova per Parma e inizia il ciclo di trasferimenti di città in città. Nella città emiliana ne fanno menzione i giornali locali: “La Gazzetta di Parma” e “Il Facchino”, una pubblicazione di scienze, lettere e arti. La fotografa scattava i suoi ritratti tutti i giorni, dalle 8 alle cinque del pomeriggio, con qualunque tempo, meno quello della pioggia. La Signora Dubray si offre a dare lezioni ai dilettanti; come dire, oltre a proporsi come ritrattista, organizzava anche del workshop, termine abusato oggi.

Pare che Josephine Dubray abbia influenzato il marchese Giuseppe Manare, che sua volta sembra essere stato capace di contagiare Guido Cavi della passione fotografica.

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BOMBARDANO MONTECASSINO

15 febbraio 1944. Seconda guerra mondiale: inizia l'assalto degli Alleati all'Abbazia di Montecassino. I bombardamenti si protrassero fino al 18 dello stesso mese: gli Alleati, sospettando erroneamente la presenza di reparti tedeschi, attaccarono l’Abbazia con 142 bombardieri pesanti e 114 bombardieri medi, radendola al suolo.

In quel momento storico, gli italiani si trovavano in una posizione difficile. A settembre ’43 era stato firmato l’armistizio, ma l’Italia era ancora l’epicentro della guerra poiché le truppe tedesche continuavano a combattere quelle Alleate.
Montecassino si trovava in una posizione strategica per sfondare le linee difensive tedesche, procedere per Roma e avvicinare la fine alla guerra. Vi erano però molti dubbi in merito a chi con esattezza occupasse l’abbazia. Alcuni ritenevano fosse occupata da milizie tedesche che usavano l’Abbazia come postazione di avvistamento e di artiglieria mentre altri asserivano con insistenza che fosse soltanto un rifugio per i monaci e non delle truppe tedesche. In molti poi insistevano sul fatto che, anche se forze nemiche non avessero già occupato il luogo religioso, era inevitabile che alla fine l’avrebbero fatto, per via della sua posizione.
Di certo alcuni civili erano fuggiti a Montecassino, nella speranza che non sarebbe stata toccata durante la guerra.
Il 15 febbraio 1944 gli Alleati portarono a termine il bombardamento che uccise centinaia di civili italiani. Non furono trovati soldati tedeschi tra i caduti per il bombardamento e le forze tedesche utilizzarono immediatamente le rovine come protezione, per cercare di impedire agli alleati la risalita verso Roma. Il monastero fu infine preso il 18 Maggio dai soldati polacchi, dopo molti mesi di violento conflitto e una perdita immensa di vite umane. Subito dopo le forze alleate presero Roma, il 4 giugno.

Il fotografo Robert Capa nel gennaio del ’44 si trova a Radicosa, nelle vicinanze di Cassino. Lì si relaziona anche gli abitanti del luogo, raccontando la guerra da par suo, senza porre l’accento sulla violenza e il sangue. Il suo obiettivo inquadra i civili, l’umanità che comunque traspare pur durante un evento tragico quale la guerra.
Per raccontare Montecassino, quello della guerra, ci siamo rivolti anche a un fotografo italiano: Federico Patellani. Nella sua immagine, i civili sfollati stanno tornando nella zona di Cassino.

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LA PRIMA FOTO DEL PRESIDENTE

È il 14 febbraio del 1849, l’undicesimo presidente degli Stati Uniti d’America, James Knox Polk, posa per un ritratto fotografico. È il primo membro della Casa Bianca a essere ritratto con una fotocamera.

Oggi si potrebbe parlare di San Valentino, ma circa questa festività ci siamo dilungati gli anni scorsi, con le fotografie di baci famosi. Abbiamo preferito non ripeterci, anche se non dimentichiamo di dedicare i nostri auguri a coloro che si vogliono bene.

Ames Knox Polk è stato fotografato da Mathew Brady. Lui può essere considerato un padre del fotogiornalismo. Fu il più grande fotografo storico americano del 19° secolo, e senza dubbio quello preferito da Abramo Lincoln. Nessuno più di lui potrebbe affermare di aver scattato più fotografie d’importanti personaggi storici nel corso del 19° secolo.

Mathew Brady fu il primo a documentare fotograficamente la guerra civile americana. Durante tutta la guerra, Brady spese cifre enormi per produrre scatti e stampe che riguardassero il conflitto. Si aspettava un aiuto da parte del governo americano, che non arrivò mai. Fu così costretto a vendere il suo studio a New York, il che volle dire la bancarotta. Brady cadde in depressione, anche per via del decesso della moglie (1887), e trovò rifugiò nell’alcool. Mathew Brady visse gli ultimi mesi della sua vita in una pensione, tutto solo, malato e indigente. È stato lasciato senza un soldo e non apprezzato, anche se ha dedicato tutta la sua vita per preservare e perpetuare la storia del suo paese. Alla fine dei suoi giorni Brady, parlando delle fotografie che ha scattato, e disse: «Nessuno saprà mai cosa mi sono costate, alcuni di esse quasi le ho pagate con la vita».

Alle cinque il 15 gennaio 1896, Mathew Brady morì, da solo e dimenticato. È sepolto nel cimitero del Congresso a Washington. Il suo amore per la vita e il suo paese vivranno per sempre nei cuori e nelle menti di milioni di persone in tutto il mondo per tutti i tempi a venire.

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