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LA PRIMA DI AMARCORD

Il 13 dicembre 1973 debutta nelle sale cinematografiche “Amarcord”, il capolavoro di Federico Fellini.
La pellicola è strutturata in capitoli, che ci trasferiscono le memorie, arrotondate dal tempo, del regista riminese. Fellini, con Amarcord, dice addio alla città natale, abbandonata all’età di diciannove anni, nel 1939, per approdare a Roma. L’opera è arricchita dalla colonna sonora di Nino Rota. Co sceneggiatore è il poeta Tonino Guerra. Il 9 aprile 1975, a Los Angeles, con Amarcord Federico Fellini vince il suo quarto Oscar.

La trama si sviluppa tra l'inizio della primavera del 1932 e lo stesso periodo del 1933 (quando si tiene la VII^ edizione della Mille Miglia), in una Rimini per come la ricordava Fellini in sogno. Viene narrata la vita nel quartiere di San Giuliano e dei suoi abitanti: le feste paesane, le adunate del "Sabato fascista", la scuola, i signori di città, i negozianti, il suonatore cieco, la donna procace ma un po' attempata alla ricerca di un marito, il venditore ambulante, il matto, l'avvocato, quella che va con tutti, la tabaccaia dalle forme giunoniche, i professori di liceo, i fascisti e gli antifascisti, ma soprattutto i giovani del paese, adolescenti in piena “tempesta ormonale”.

Le parole di Federico Fellini (Fonte, il Cinema ritrovato). «Mi sembrava che il film che volevo fare rappresentasse proprio la necessità di una separazione da qualcosa che ti è appartenuta, nella quale sei nato e vissuto, che ti ha condizionato, ammalato, ammaccato, dove tutto si confonde emozionalmente, pericolosamente, un passato che non deve avvelenarci, e che perciò è necessario liberare da ombre, grovigli, vincoli ancora operanti, un passato da conservare come la più limpida nozione di noi stessi, della nostra storia, un passato da assimilare per vivere più consapevoli il presente».

Amarcord è un film indimenticabile, come lo sono i ricordi. Ci offre anche un insegnamento forte e consapevole: la memoria va salvata, ma con cura. Non si può tornare indietro su quanto è stato, per non essere reduci di se stessi. Occorre viceversa uno sguardo lucido e attento, che ponga l’accento su noi stessi e quanto rappresentiamo oggi. Il parallelo con la buona fotografia risulta evidente.

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INDOVINA CHI VIENE A CENA

12 dicembre 1967. Debutta sul grande schermo "Indovina chi viene a Cena?" (tiolo originale Guess Who's Coming to Dinner), il film interpretato da Katharine Hepburn, Spencer Tracy, Sidney Poitier e Katharine Houghto, con la regia di Stanley Kramer. Per la sua interpretazione, nel 1968 Katharine Hepburn vincerà l’Oscar come migliore attrice protagonista. Il film uscirà nelle sale italiane il 3 aprile 1968.

La pellicola è datata, ma affronta un tema molto attuale. Joey è una ragazza bianca, figlia di una famiglia borghese. Un giorno, conosce John Prentice, dottore di origini afroamericane. I due s’innamorano e intendono sposarsi. Joey è convinta che i suoi accettino il futuro genero. In realtà, nonostante la madre appoggi la decisione della coppia, il padre teme che i pregiudizi razziali diffusi nella società americana possano influire negativamente sulla vita dei due innamorati. Lo stesso padre di John si oppone al matrimonio. L'amore alla fine vincerà, contro tutto e tutti.
Indovina chi viene a cena metteva in mostra come i pregiudizi e la violenza morale, propri del razzismo, possono influenzare anche quanti razzisti non sono. E’ lì che il film conserva tutta la sua attualità: pure coloro che sono consapevoli dell’esistenza di una sola razza, quella umana, rischiano di subire un ricatto perché circondati da concittadini pieni di odio razziale. Si tratta di un condizionamento forte, che riduce la libertà di scegliere perfino a chi volere bene.

Nel film, durante il suo svolgimento, la Hepburn dice a Tracy: «Lei ha imparato quelle cose che le abbiamo insegnato, e cioè che era ingiusto ritenere che i bianchi fossero, non si sa per quale ragione, superiori alle persone di colore. E che quelli che la pensano così sono in errore, alcuni per malvagità, altri per stupidità, ma sempre in errore. Questo le abbiamo detto, ma non abbiamo aggiunto: “Però non t’innamorare di un uomo di colore!”».

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FOTOGRAFIA DA LEGGERE …

Consueto appuntamento del lunedì con “Fotografia da leggere”. L’aver messo un po’ d’ordine nella biblioteca ci ha permesso di ritrovare un volume dimenticato nelle seconde file: “Storia della Fotografia”, di Helmut e Alison Gernsheim, Edizioni Frassinelli.

Avevamo già incontrato i due autori, peraltro marito e moglie. Nel 1952, Helmut fece una delle scoperte più significative mai fatte nella storia della fotografia. Attraverso approfondite ricerche, e con l'aiuto di sua moglie Alison, scoprì come la prima fotografia al mondo sia stata creata da Joseph Nicephore Niepce, e non da Louis Daguerre come si credeva in precedenza. Quando Niepce non ebbe alcun successo nel convincere la Royal Society del suo processo "fotografico", lo chiamò "Eliografia"; e poi diede la sua fotografia a Sir Francis Bauer.
Quest’ultimo era un amico e collega e sul retro dell'immagine incorniciata scrisse: "Il primo esperimento riuscito di Monsieur Niepce di fissare definitivamente l'immagine della natura”. Gernsheim fece risalire la provenienza a Sir Bauer durante una mostra pubblica del 1898 e scoprì la famiglia che poteva possederla. Così acquisì la prima fotografia, che divenne parte della sua collezione. Si trattava della famosa “Vista dalla finestra a Le Gras”, 1826.

Il libro è bello da sfogliare, consultare e rileggere. Al di là della storia, il volume è arricchito da numerose illustrazioni. Particolarmente interessanti sono gli ultimi due capitoli: “I risultati artistici della fotografia” e “Fotografie e fotografi, il periodo moderno”; in entrambi l’abbondanza di fotografie agevola la lettura, esaltandola.

Tentando di riassumere le vita di Helmut Gernsheim, possiamo solo scrivere cosa è stato detto di lui. Una rivista scrisse che, come collezionista e studioso, non solo aveva interpretato la storia della fotografia, ma era riuscito anche a farne parte.

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GIORNATA MONDIALE DEI DIRITTI UMANI

Il 10 dicembre si celebra la Giornata mondiale dei diritti umani. La data è stata scelta per ricordare la proclamazione da parte dell'Assemblea delle Nazioni Unite della Dichiarazione dei diritti umani il 10 dicembre del 1948.

Sentiamo la necessità di scrivere circa questa giornata, anche se ci sentiamo impotenti, con la sola arma della fotografia a nostra disposizione. La nostra scelta delle immagini, per celebrare questo 10 dicembre è istintiva, dettata dal gusto e dalla preferenza. Forse ci sarebbe stato dell’altro e di meglio. Chiediamo scusa.

Ecco allora la prima immagine. Lo scatto è di Jeff Widener dal titolo “Tank Man”. Siamo in Piazza Tienanmen, a Pechino, nel 1989.
Un uomo in mezzo alla strada, da solo, blocca l'avanzata dei carri armati cinesi mandati dal governo a reprimere la rivolta che stava nascendo in Cina nel 1989. L'immagine entra nella storia per la sproporzione che esprime, una sorta di "Davide contro Golia". La borsa della spesa in mano al manifestante conferma il fatto come lui sia una persona normale e non un eroe; anche se è proprio persone normali che possiamo aspettarci il coraggio. L'uomo nella foto non è mai stato identificato.

La seconda immagine scelta porta la firma di Elliott Erwitt. Siamo negli USA, in North Carolina. E’ il 1956. Il grande fotografo dell'Agenzia Magnum, recentemente scomparso, racconta in nel suo scatto la segregazione razziale nel sud degli Sati Uniti. Le parole non servono.

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