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IL RADIO DI MARIE E PIERRE CURIE

21 dicembre 1898, i coniugi Marie e Pierre Curie scoprono il radio. Il nome è la conseguenza diretta della proprietà del minerale di emettere radiazioni.

«Nella vita non c’è niente da temere, solo da capire», così soleva dire Marie Curie, parole che confermano il suo carattere deciso e ostinato, riconoscibile anche sull’espressione severa del volto. Lei verrà ricordata come "la madre della fisica moderna".
Oggi incontreremo la storia di una donna esemplare, non suffragata da fotografie d’autore, ma solo da immagini di contorno. Nelle poche parole che sapremo dedicare alla vita di Marie Curie mancherà il dato scientifico, il peso delle sue scoperte, le stesse che hanno aperto porte conoscitive importanti, poi percorse dalla ricerca negli anni successivi.

Come dicevamo, non avremo fotografie d’autore. A noi però è piaciuta l’immagine di Marie e Pierre in procinto di partire per il viaggio di nozze. E’ il 26 luglio 1895. I due, appena sposati, posano vicino alle loro biciclette, comprate da poco. I velocipedi sono identici, entrambi da uomo. Quella di Pierre è dotata di una borsa da viaggio, quella di Marie ha il manubrio impreziosito da una ghirlanda di fiori. Lui indossa giubbotto e calzoni sportivi, lei in testa porta un cappellino di paglia e, invece della gonna lunga, veste calzettoni e pantaloni chiusi al ginocchio. L’esperienza del viaggio pare sia stata esaltante, tant’è vero che tutti gli anni i Curie, durante l’estate, giravano in lungo e in largo la Francia, arrivando con le tenebre sempre in un nuovo posto.

Molti scienziati, Albert Einstein in testa, hanno nutrito una forte simpatia per la bicicletta. Forse è la meccanica del pedalare ad affascinare i cervelloni, con anche la ricerca che occorre mettere in atto di continuo per procedere in avanti. Più probabilmente, è la semplicità ad attirare i geni della scienza verso la due ruote. Loro sono abituati a teorizzare, il che rappresenta la sintesi semplice dopo anni di studi.

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HANS WATZEK, PITTORIALISTA

Scopriamo Hans Watzek sul libro “Storia della Fotografia”, di Beaumont Newhall (Edizioni Einaudi); un testo che consultiamo spesso. Lì si parla di tre amici: il nostro Hans, con Hugo Henneberg e Heinrich Kühn. Si legge: «Loro eccelsero nella stampa su carta trattata con gomma bicromata; esposero in gruppo sotto il nome Kleeblat (si veda dopo). Avevano uno stile che li distingueva: stampe grandi (50x100 cm.), una composizione simile a quella dei manifesti, abbondante uso di pigmenti, solitamente azzurri o marroni, su ruvida carta da disegno».

Da subito diciamo che ci è piaciuta l’idea dell’amicizia, difficile a incontrarsi tra colleghi fotografi, almeno nell’atto di costruire il medesimo lavoro. Insieme viaggiarono molto: Lago di Garda, Lago di Costanza, il Tirolo, il Mare del Nord; destinazioni scelte come occasioni di studio. La fotografia all'epoca era un’attività molto dispendiosa in termini finanziari. Watzek, anche a differenza dei suoi stessi amici, disponeva di risorse molto più limitate. Per questi motivi usava materiali poveri; si auto costruiva le sue fotocamere di cartone, utilizzava carta al bromuro d'argento come negativa, meno costosa delle altre.

Siamo nella seconda metà dell’800 e, a oggi, quando parliamo di un fotografo di quel tempo, ci meraviglia sempre la diffusione delle fotografie. Il nostro Hans ha esposto in tutta Europa e anche oltre oceano. Non vogliamo mettere in dubbio le qualità fotografiche che esprimeva, ma le sue opere hanno esaltato lo sguardo di Stieglitz e Steichen, dall’altra parte del mondo al tempo. Questo conferma come la fotografia abbia rappresentato un linguaggio internazionale, sin dai suoi albori.

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FALLISCE LA KODAK

19 dicembre 2012, la Kodak fallisce. Di certo, non si tratta di una data da celebrare; diciamo che si chiude un’epoca. Il marchio era stato registrato nel 1888, quando veniva consegnato il brevetto per la fotocamera a rullino. Ai vertici della company vi era George Eastman, l’inventore di una nuova macchina fotografica.
Il rullino fotografico è vissuto per più di un secolo. Fino a inizio terzo millennio rappresentava l’unità di misura dell’idea fotografica. La quantità acquistata dipendeva dal soggetto che s’intendeva ritrarre, o anche dall’evento. Per un compleanno uno era sufficiente, le vacanze invece ne prevedevano quantitativi maggiori, ma i ricordi sarebbero vissuti in trentasei scatti, o multipli di quel numero.

Altri tempi, è vero; anche perché le trentasei fotografie possibili imponevano lentezza e anche una gerarchia di soggetto. “Scatto a mia nonna le ultime pose”, così recitava una canzone degli Stadio, e in effetti i rullini andavano finiti, specialmente al termine delle vacanze; così ci si concedeva lo scatto mai pensato, occasionale, forse il migliore: quella nonna commossa che ci salutava asciugandosi le mani sul grembiule.

Chi scrive ricorda con affetto la madre che andava in posta per spedire le pellicole Kodak esposte con una cinepresa 8 mm, a molla. Lo sviluppo era già stato pagato con l’acquisto del materiale sensibile. I filmini tornavano indietro in poco tempo, a sorprendere tutta la famiglia: ognuno durava 3 minuti. Tempo dopo, è stata la volta delle diapositive Kodachrome: stessa procedura, medesima meraviglia. Lo scatolino di plastica conteneva le dia intelaiate col cartone. Acclusi vi erano anche dei consigli.

Oggi, sempre chi vi parla, conserva nella vetrinetta delle cose buone due pellicole: una Kodachrome e una Kodak Ektar, negativo a colori. Altre sono ancora in frigo.

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FOTOGRAFIA DA LEGGERE …

Consueto appuntamento del lunedì con “Fotografia da leggere”. Oggi proponiamo la biografia di un fotografo incontrato più volte. Si tratta di “Gianni Berengo Gardin”, di Silvana Turzio; Bruno Mondadori editore.

Leggiamo nell’introduzione di Silvana Turzio. «Offrire in un solo volume informazioni e analisi su tutto il lavoro di Gianni Berengo Gardin si presentava come un’impresa complessa, che rendeva necessario operare una selezione, rintracciando un filo conduttore. E’ stata decisiva la considerazione che Berengo Gardin è autore di libri fotografici e grande bibliofilo: ho scelto dunque di dare ampio spazio ai libri che lui stesso ha creato, mettendoli in relazione con i testi introduttivi e con le critiche pubblicate».
Sempre Silvana Turzio, nell’introduzione, ha scritto: «Per collocare l’opera in un contesto più ampio, cogliendo le valenze sociologiche ed estetiche, sembrava importante ripercorrere i momenti salienti della formazione di Berengo Gardin, così come esaminare il lavoro editoriale svolto per la committenza, snodo fondamentale per la fotografia italiana fino agli anni novanta».

Conosciamo bene il maestro ligure. Abbiamo parlato con lui più volte, che comunque si è sempre rivelato come un individuo ermetico, conciso, di poche parole. Il leggere questa biografia ci ha aiutato a comprenderlo meglio. Resta il fatto che il suo lavoro è enorme, il che si presta a molteplici letture. Concordiamo quindi con Silvana Turzio quando dice: «Per privilegiare la pluralità degli sguardi, alla fine del libro ho raccolto tre interviste a colleghi e amici del maestro di lunga data». Non ne sveliamo i nomi in questa sede, si tratta comunque di un valore aggiunto che questa biografia riesce a regalarci.

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