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IL VESUVIO ERUTTA, POMPEI SCOMPARE

Il 24 agosto del 79 d. C. erutta il Vesuvio. Pompei è sommersa da cenere, lapilli e lava, divenendo, da allora, il teatro dell’evento eruttivo, un luogo dove gli istanti degli avvenimenti rivivono alla vista, complici i tanti corpi trasformati in statue, irrigiditi nell’ultimo tentativo di sopravvivere alla polvere e alla lava.

Arriviamo alla fotografia. Kenro Izu, autore giapponese di Osaka (1949), ci propone un lavoro originale su Pompei, poi diventato libro (Requiem, Skira Editore 2020). Il volume narra una storia e restituisce vita e dignità a quanti morirono per l’eruzione del Vesuvio nel 79 d. C., incapaci di reagire di fronte a tanta improvvisa violenza. Con caparbietà ostinata, Izu ha allestito i corpi dei fuggitivi (trasformati dalla lava incandescente in statue eterne) nelle varie case come negli esterni di Pompei ed Ercolano. I corpi rattrappiti che scopriamo nelle stanze o lungo i corridoi lastricati ci colgono impreparati perché li vediamo dove, forse, l’eruzione li sorprese, inermi e abbandonati dopo aver cercato invano un rifugio. Quella di Izu, quindi, non è una rilettura storica per immagini di un evento catastrofico, piuttosto diventa un omaggio alla gente di Pompei ed Ercolano.

Le suggestive immagini del fotografo giapponese, tra spiritualità e reperti archeologici, ci hanno indotto a rileggere una testimonianza dell’epoca: quella di Gaio Plinio Cecilio Secondo, detto anche Plinio il Giovane per distinguerlo dall’omonimo zio Plinio il Vecchio. Plinio “secondo” aveva diciotto anni. Suo padre era morto quando era ancora bambino e in seguito era stato adottato dallo zio, il rinomato scrittore e naturalista di Como che al tempo dell’eruzione del Vesuvio si trovava sul Golfo di Napoli come prefetto della flotta imperiale romana all’ancora presso Miseno.
In una lettera inviata da Plinio allo storico Tacito vengono trascritte le testimonianze circa la morte di Plinio il Vecchio. Questi si era recato a Ercolano per andare ad aiutare la famiglia di un amico, ma dovette cambiare rotta a causa del ritiro improvviso delle acque. Si diresse così verso Stabia, dove approdò; facendosi ospitare da Pomponianus. Anche quella cittadina venne colpita dalle ceneri e lapilli del vulcano. I vapori tossici soffocarono Plinio il Vecchio che lì trovò la morte.

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EDGAR LEE MASTERS

Il 23 agosto 1869 nasce Edgar Lee Masters. Lui è famoso per l’Antologia di Spoon River (Spoon River Anthology), una raccolta di poesie che il poeta statunitense pubblicò tra il 1914 e il 1915. Queste raccolgono gli epitaffi, raccontati dagli stessi defunti, di un’immaginaria cittadina Usa. Ciò che contraddistingue i personaggi di Masters è che, essendo per la maggior parte deceduti, non hanno più nulla da perdere e quindi possono “raccontarsi”, confessando con assoluta sincerità i loro peccati, le loro ambizioni, i propri amori.
C’è un’antologia anche di casa nostra, per certi aspetti simile a quella “americana”. Porta il titolo di “Un Paese”, e ha come protagonista Luzzara (paese natale di Cesare Zavattini) e i suoi abitanti, immortalati dalla fotocamera del fotografo statunitense Paul Strand.
Il volume uscirà nel 1955, realizzando uno scambio tra fotografia americana degli anni Trenta (in particolare quella della East Coast) e neorealismo italiano. Le foto dei luoghi e soprattutto della gente di Luzzara sono corredate da didascalie basate sui racconti degli stessi abitanti, raccolte da Zavattini. Quello che emerge è una sorta di Antologia di Spoon River italiana, con le parole dei soggetti stessi, che si raccontano, immortalati in quelle che sembrano autentiche lapidi scolpite nella memoria. (Fonte, Fondazione Un Paese – Luzzara).
Riportiamo una poesia dall’Antologia di Spoon River e riguarda la fotografia.

Penniwit, l'artista

Perdetti la mia clientela di Spoon River
perché tentai di far entrare il cervello nella camera oscura
per afferrare l’anima della gente.
La miglior fotografia che io abbia mai fatto
fu quella del giudice Somers, procuratore.
Egli sedette ben dritto e mi fece attendere
finché riuscì a raddrizzare l’occhio storto.
Poi quando fu pronto, disse: “Pronto”.
Ed io gridai: “Respinto”, e il suo occhio si girò.
E lo colsi proprio come era solito guardare
quando diceva: “Mi oppongo”.

Una curiosità. Fabrizio De André ha inciso un LP liberamente tratto dall’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters. Si tratta di “Non al denaro non all’amore né al cielo”, pubblicato nel 1971.

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HENRY CARTIER BRESSON

Il 22 agosto 1908 nasce a Parigi Henry Cartier Bresson, il maestro dell’istante. Suo è questo aforisma: “È un’illusione che le foto si facciano con la macchina… si fanno con gli occhi, con il cuore, con la testa”. La frase che racchiude l’essenza del lavoro di Cartier Bresson, lo stile inconfondibile, il suo approccio con la macchina fotografica: lo strumento dell’intuito e della spontaneità.

Bresson proviene da una famiglia agiata, che comunque gli restituirà un rapporto controverso col denaro. A quel tempo possiede, come tanti altri bambini, una Brownie-Box, che usa per riempire piccoli album di ricordi delle vacanze. Poi, agli inizi degli anni Venti, comincia a praticare la fotografia amatoriale.
Sboccia poi la passione per l’arte, grazie anche a uno zio pittore che avrà un grande ascendente su di lui e a diciotto anni s’iscrive all’Accademia di pittura di André Lhote, pittore vicino ai cubisti che, accanto alla pittura, aveva sviluppato anche un importante lavoro di teorico e critico d’arte.

Come per tutti i grandi, anche lui avrà un episodio che lo segnerà profondamente: un viaggio in Costa d’Avorio nel 1930, una partenza improvvisa, dovuta forse al desiderio di uscire dal bozzolo famigliare e rompere con l’insegnamento di Lhote che considerava troppo teorico. Lo scopo del viaggio non era stato quello della fotografia, ma al suo ritorno nel 1931, un libro di fotografie di Martin Munkacsi, che contiene una fotografia di tre bambini di colore che corrono a buttarsi nel lago Tanganica, sarà per Henry una vera e propria rivelazione. In quell’immagine c’era tutto: la grazia compositiva, la dinamica, l’intensità, il contrasto.
“Ho capito improvvisamente che la fotografia poteva fissare l’eternità in un attimo” dirà più tardi. Distrugge le sue tele e comunica al padre il desiderio di diventare fotografo.
Bresson avrebbe tentato anche la via del Cinema. Giusto come curiosità, lui fu uno dei due assistenti nel film “La scampagnata” di Renoir, assieme a Luchino Visconti.

Il suo lavoro lo porterà a girare il mondo e diventerà, ben presto, uno dei fotografi più amati e conosciuti di tutti i tempi, oltre che il precursore del fotogiornalismo. Il suo talento è immenso, così come pure la sua perfezione compositiva.
Secondo lui non erano necessari grandi mezzi, anzi, è da un’economia di mezzi che si arriva alla semplicità di espressione, perché è molto più utile “osservare lì, dove gli altri sanno solo vedere “ e saper pazientare in attesa “dell’istante decisivo”.
Sapeva comprendere l’importanza attraverso l’essenza, percepire l’energia di un luogo, l’atipicità di un momento, l’espressività di uno sguardo, ma soprattutto aveva la capacità, tutta istintiva, di sapere quando è il momento di aspettare il guizzo visivo e archiviarlo nella memoria della sua fotocamera.

Di Bresson si è detto molto e sicuramente ne hanno parlato voci più autorevoli di noi. Quando ci occupiamo di lui, però, proviamo un forte senso di rispetto, ed anche di gratitudine. Siamo convinti che la diffusione della fotografia sia stata generata da vari fattori: il piccolo formato (del quale Bresson fu un fautore) e anche l’industria; entrambi hanno popolarizzato la passione per il Click. HCB, però, ha fatto sì che molti seguissero un indirizzo, un atteggiamento, persino un pensiero fotografico. Senza di lui forse non sarebbero esistiti tanti professionisti e, probabilmente, molti di noi non sarebbero qui a godere della fotografia, come facciamo adesso.

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DIMENTICANZA D’AGOSTO

La concitazione spesso ci fa compiere degli errori, sempre alla ricerca, come siamo, della notizia, di una fotografia famosa che la racconti e del suo autore. Questa volta rimediamo.

Il 6 agosto 1928, nasce a Pittsburgh, uno degli artisti americani più importanti del Novecento: Andy Warhol, pittore, scultore, regista statunitense, tra i fondatori della cosiddetta Pop Art. Al secolo Andrew Warhola, nasce da una famiglia d’immigrati slovacchi, agli inizi degli anni Cinquanta lavora come grafico pubblicitario per riviste quali "Vogue", "Harper's Bazar", "Glamour". Nel 1952 tiene la prima personale alla Hugo Gallery di New York.

E’ intorno al 1960 che comincia a realizzare i primi dipinti che si rifanno a fumetti e immagini pubblicitarie, che lo renderanno famoso. Dick Tracy, Popeye, Superman e le prime bottiglie di Coca Cola "icone-simbolo" del suo tempo, sono i soggetti scelti e riprodotti con uno stile volutamente “neutro” e piatto, anche quando dipinge sedie elettriche o incidenti d’auto. Si delinea così la filosofia dell’artista che più ha saputo interpretare la società del benessere, dei consumi, dell’immagine e del desiderio di apparire, degli anni ’60. Proponendosi come imprenditore dell'avanguardia creativa di massa, fonda la "Factory", una sorta di officina di lavoro collettivo. Nel 1969 lancia la rivista "Interview", che, da strumento di riflessione sul cinema, amplia le sue tematiche a moda, arte, cultura e vita mondana.

“Porto con me la macchina fotografica ovunque vada”. “Avere un nuovo rullino da sviluppare mi dà una buona ragione per svegliarmi la mattina”. Questo diceva l’artista, il che sottolinea la sua passione per la fotografia. Negli anni ’70 e ’80, personaggi della portata di Marilyn Monroe, Liza Minnelli e Giorgio Armani erano ospiti fissi nella sua Factory dove, dopo vari festeggiamenti, venivano truccati e immortalati dalla sua Polaroid. Molti di quegli scatti sono vere e proprie opere d’arte che mettono in risalto la sua capacità di tramutare in arte anche le situazioni di vita più banali.

Andy Warhol muore a New York il 21 febbraio 1987 durante un banale intervento chirurgico.

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