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SAN REMO, ADESSO TU

15 febbraio 1986, Eros Ramazzotti vince Sanremo con “Adesso tu”. La notizia, per quanto debole, ci permette di gettare un ponte tra ieri e oggi, prendendo in esame due ere differenti. A metà anni ’80 internet non esistevano né internet, tantomeno i social. Poco dopo il Festival, in aprile, a Černobyl', in Ucraina, sarebbe esploso reattore n. 4. Nei giorni seguenti, una nube radioattiva avrebbe contaminato buona parte dell'Europa. Non solo, sempre in aprile l’esercito libico lanciava due missili verso Lampedusa. Insomma, ogni era ha i suoi guai.

Arriviamo al 2023. Anche quest’anno l’Italia televisiva ha potuto godere del Festival di San Remo, con una eco che arriva ancora oggi: tra commenti, illazioni, gossip, dicerie. Del resto, la manifestazione canora ligure vive soprattutto di quello, trattandosi di uno spettacolo da TV e non di un evento musicale. Molte cose sono cambiate, con una direzione artistica volta alla modernità. Ecco quindi una influencer a presentare, con tutte le implicazioni sui social; ma poi si sono visti baci inconsueti, a dimostrare un’attenzione maggiore verso i costumi sociali del momento. Tutto è filato liscio, perché almeno sono mancate le polemiche: spesso incombenti nelle edizioni passate. Ciò che si è visto non ha destato clamori di sorpresa, quasi fossimo già abituati a ciò che veniva trasmesso.
La musica? Qui c’è poco da dire. I brani ascoltati godranno di ripetuti passaggi radiofonici, ma difficilmente alcuni di questi diventeranno iconici, ivi compresa la canzone vincitrice: impegnativa tecnicamente (per la voce, forse), ma tipicamente sanremese nel costrutto.
Che dire? Buona fortuna a tutti. Molti interpreti li rivedremo nelle prossime edizioni, perché l’Ariston, per target, è casa loro. E così ci aspettano anni di “Rep”, un modo di fraseggiare cantando tipico delle nuove generazioni. Sentiamo la mancanza di autori, questo sì; ma si tratta di un commento da persona desueta, che però di musica ne ha ascoltata tanta.
Vedremo.
A conti fatti, sono altre le domande che ci sentiamo di porre. Per un evento trasmesso in mondovisione, che Italia viene fuori? E poi, siamo in grado di riconoscere noi stessi? Non risponderemo a questi quesiti, non adesso e non qui. Le parole risulterebbero frettolose e superficiali, ma occorre riflettere: con attenzione. Facciamolo.

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AUGURI A CHI SI AMA

Il 14 febbraio ogni anno si celebra San Valentino, la festa degli innamorati. La ricorrenza pare abbia origini antiche, sin dal tempo dei romani; e anche la religione cattolica celebra un martire con lo stesso nome. Non importa, lasciamo agli studiosi gli eventi storici; resta il fatto che la tradizione è arrivata sino a noi: col regalino di rito o quel mazzo di rose (meglio se rosse) a significare un sentimento ancora acceso, come i primi tempi.
A voler simbolizzare l’amore, però, anche fotograficamente, rimane solo un gesto: il bacio. «Un bacio – ma cos’è poi un bacio?». E’ Cyrano de Bergerac a porre la domanda, nella celebre commedia teatrale del poeta drammatico francese Edmond Rostand. E il personaggio continua: «Un giuramento un po’ più da vicino, una promessa più precisa, una confessione che cerca una conferma, un apostrofo roseo fra le parole t’amo, un segreto soffiato in bocca invece che all’orecchio, un frammento d’eternità che ronza come l’ali d’un ape, una comunione che sa di fiore, un modo di respirarsi il cuore e di scambiarsi sulle labbra il sapore dell’anima!».
Parole vere, non c’è che dire; ma forse bastava affermare che tutto inizia da lì, con quel conoscersi nell’intimo tramite un gesto semplice e spontaneo. Il primo bacio è il battesimo della coppia, una data sul calendario; e anche difficile da dimenticare, un po’ come tutte le prime volte.
Il cinema ne ha fatto ampio uso, dalle prime pellicole fino a oggi. Ne abbiamo visto un largo campionario in “Nuovo Cinema Paradiso”, ma di film con quel gesto se ne potrebbero ricordare tanti, con le labbra che s’incontrano dolcemente, con lentezza; o in maniera irruenta, perché parte di un istante inatteso, rifiutato e poi accettato.
E in fotografia? Anche qui non c’è che l’imbarazzo della scelta: si va dai celeberrimi ai meno noti, con una grande varietà d’autori. A Doisneau resta il primato del più conosciuto ("Bacio davanti all'Hotel De Ville"), ma anche Alfred Eisenstaedt non scherza ("V-J Day in Times Square"). Ai due autori si potrebbero aggiungere: Gianni Berengo Gardin, Elliott Erwitt, Henri Cartier Bresson e molti altri. Ne possiamo proporre solo due e così faremo. Resta il fatto che baciarsi fa bene: all’amore e alla salute (così dicono gli scienziati). Facciamolo più spesso, a iniziare da oggi.

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FOTOGRAFIA DA LEGGERE …

Il consueto appuntamento del lunedì (“Fotografia da Leggere”) questa settimana opera una sterzata improvvisa, con una proposta a dir poco trasversale: i Romanzi del Commissario Maigret, di George Simenon. Le ragioni della scelta sono molteplici. Non nascondiamo, in primis, una simpatia personale per l’autore belga, anche, e soprattutto, circa le sue opere narrative non poliziesche. Simenon però si è fatto conoscere anche a livello fotografico, con un archivio di circa tremila immagini raccolte durante i suoi viaggi intorno al mondo. La sua attenzione per l’immagine scattata è andata però oltre, quando ha imposto all’editore della prima serie del commissario Maigret l’uso delle fotografie (d’autore) per le copertine. Si trattò di una soluzione che non era stata ancora adottata e che probabilmente decretò il successo del famoso commissario.
Simenon, peraltro colto fotograficamente, veniva ritratto di frequente; questo in un periodo nel quale l’immagine non era ancora importante come oggi. Il suo personaggio, quello dell’autore, sicuramente ne trasse beneficio, anche sul versante del successo editoriale.

Sono in totale settantacinque i romanzi con il commissario Maigret protagonista, scritti e dallo scrittore belga Georges Simenon tra il 1930 e il 1972. Molti di questi sono diventati film per il cinema, sceneggiati o serie televisive trasmesse in diversi paesi. In Italia i nonni ricorderanno lo sceneggiato televisivo interpretato da Gino Cervi, secondo Simenon il Maigret più vero. Ricordiamo solo che allora Camilleri, lo scrittore, era delegato alla produzione.

Immaginiamo una domanda: perché leggere Maigret? Noi lo usiamo come “defaticante”, tra una lettura e un’altra. C’è però dell’altro. Le descrizioni dei personaggi sono attente e acute, così come quelle delle ambientazioni e dei contesti. Sono righe “da vedere”, quelle relative al famoso commissario; anche quando opera lontano dalla sua Parigi. Gli spunti fotografici sono tanti, circa il centro d’attenzione e quanto può comporre l’inquadratura. Per finire, chi dovesse andare nella capitale francese per turismo troverà un solido aiuto nelle pagine di Maigret, perché c’è (o c’era) una Parigi di Atget, un’altra di Doisneau, ma anche quella di Simenon. Provare per credere.

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IL SECOLO DI ZEFFIRELLI

E’ un caso che Franco Zeffirelli porti quel cognome. Lui era nato al di fuori del matrimonio, quindi non poteva fregiarsi del cognome materno, né di quello paterno. Alaide Garosi Cipriani, la madre, pensò agli zeffiretti cantati da Ilia nell’Idomeneo di Mozart, ma l’impiegato dell’anagrafe lesse “zeffirelli” e così fu.

I titoli e onorificenze di Zeffirelli sono molteplici. Può vantare cinque David di Donatello, due candidature all’Oscar, il titolo di baronetto del Regno di Gran Bretagna. Con all’attivo un vasto numero di regie e sceneggiature di film e opere liriche, Zeffirelli si colloca nella scena mondiale come un artista riconosciuto e imponente. Si è formato inizialmente con Luchino Visconti, ma poi ha continuato a sperimentare, senza mai abbandonare lo sguardo verso il nuovo. Persone a lui vicine, raccontano che mentre discuteva di una scenografia era capace di abbozzarne un’altra dello spettacolo che lo avrebbe visto protagonista.

E’ stato spesso discusso, Zeffirelli, come del resto capita ai grandi; ma nessuno ha alzato la mano quando, all’indomani della tragedia dell’alluvione del 1966, Zeffirelli fu tra i primi, col fango fino alla cintola, a girare immagini drammatiche della devastazione della sua città, rendendo un gran servizio all’informazione per far capire cosa davvero stesse succedendo nel capoluogo toscano. Quei fotogrammi, con la voce commossa di Richard Burton , divennero "Per Firenze", il film documentario col quale fu rivelata la dimensione della catastrofe.

Quello che ricordiamo dei lavori di Zeffirelli è il senso estetico, particolarmente efficace nella lirica a teatro. A tale proposito, ricorderemo del regista le aperture degli Anni Santi, in televisione. Li si riconosceva la sua impronta, nonostante il mezzo.
Lui ha comunque espresso (ed esportato) un italianità vera, non omologata, nobile addirittura; certamente al di fuori dei luoghi comuni.

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