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RICORDANDO KARL LAGERFELD

Il 19 febbraio 2019 ci lascia Karl Lagerfeld, il noto creatore di moda. E’ interessante prendere atto come lui si sia dedicato anche alla fotografia, che è entrata a far parte della sua vita. E’ bello guardare le sue immagini, perché intense, potenti potremmo dire. L’arte dello scatto, la nostra passione, si conferma come una pratica trasversale, contaminante e contagiosa. Bene così.

Karl Lagerfeld inizia la cui carriera di fotografo nel 1987. Lui si è dedicato a differenti supporti fotografici: dagherrotipi, platinotipi, trasferimenti polaroid, stampe alla gelatina d’argento, serigrafie, fotografie colorate a mano, stampe a getto d'inchiostro.

Lagerfeld non avrebbe mai pensato di fare delle fotografie da solo se il direttore dell’immagine di Chanel Fashion, un giorno non lo avesse messo alla prova perché aveva bisogno di foto per una cartella stampa. La fotografia ha iniziato a far parte della sua vita.

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E’ LUI TONY MANERO

Il 18 febbraio 1954 nasce John Travolta, il Tony Manero del film "Saturday Night Fever". Forse siamo riduttivi, ma l’attore del New Jersey induce la memoria a ricordare quel lontano 1978, quando per andare a vedere “La Febbre” occorreva fare la fila.

Ricapitoliamo. Il film racconta la storia di Tony Manero commesso in un negozio di giorno, in una periferia che non offre speranze, e re della pista da ballo di sera. La pellicola ebbe un successo straordinario. La colonna sonora, composta per lo più dai celebri brani dei Bee Gees (tra cui Stayin' Alive), vendette oltre 40 milioni di copie in tutto il mondo, diventando una delle colonne sonore più vendute di tutti i tempi (a quel tempo, prima della pubblicazione di Thriller di Michael Jackson, era anche l'album discografico più venduto di sempre in assoluto). Tra i brani del soundtrack ricordiamo anche “Disco Inferno”, dei Trammps, uno dei brani “Disco” più celebri dell’epoca.

A rivedere "Saturday Night Fever" oggi, non si rimane meravigliati; e ci si stupisce del successo che ha avuto (attenzione, è un’opinione). Di certo ha consacrato John Travolta, che ne esce bene. Vestito di bianco, mentre balla sotto le luci della discoteca, riesce a far reggere il personaggio. Cos’è successo allora nel ’78? La musica era un prodotto da acquistare o farsi registrare dagli amici. Morale, la sua eco arrivava prima dell’originale. E nel film in questione i Bee Gees hanno avuto un ruolo forte.
John Travolta, subito dopo, ha cavalcato la tigre recitando in Greese, che proponeva una colonna sonora più datata, almeno nel costrutto; poi ha frequentato altri lidi e rinnovati generi filmici, uscendone sempre bene, anche quando i chili hanno fatto dimenticare le movenze di Tony Manero. Resta il fatto che quel personaggio l’ha lanciato nell’olimpo del cinema, tant’è vero che, guardandoci a ritroso nel tempo, ricordiamo più lui che la trama del film della “Febbre”.

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I GATTI IN FESTA

Il 17 febbraio, in Italia, è stato proclamato come la giornata Nazionale del Gatto. Il mese in corso infatti è quello dei gatti e delle streghe, in più il 17 potrebbe sfatare la sfortuna spesso legata, dai superstiziosi, al felino domestico. Queste sono le ragioni della scelta, alle quali se ne aggiungono altre: il segno zodiacale e l’anagramma del 17 in numeri romani, che da XVII diventa VIXI, cioè vissi, visto che l’animale festeggiato gode di ben sette vite.

I gatti fanno comunque parte delle vite di tutti. Anche se non abitano nelle nostre case, li vediamo passeggiare tra strade e giardini. Già, perché loro sono indipendenti, sicuri, solitari, silenziosi, a volte abitudinari. Le movenze, poi, risultano flessuose, con un’agilità che non conosce eguali. Alla fine diventano anche simpatici, al punto che sono stati disegnati molti cartoons ispirati a loro, tra questi: Tom & Jerry, di Hanna & Barbera; o Gli Aristogatti, della Disney.

Chi scrive, ricorda le nonne: paterna e materna. Tutte e due possedevano un gatto, diventato il simbolo della casa. In entrambi i casi, il felino dormiva sul solito cuscino e grattava la porta quando voleva uscire. Per rientrare, si faceva intendere con un miagolio commovente. Saltavano poi in grembo, i due, quando lo desideravano, senza esagerare.
Uno dei due gatti è sopravvissuto a mia nonna e l’ha cercata a lungo nei suoi spostamenti abituali: la casa di un’amica, il camposanto, il negozio del paese. Questo per dire che non sempre quei felini si affezionano unicamente alla casa, potendo invece esprimere un attaccamento fedele come altri animali.

Insomma, fanno compagnia i gatti: in casa e fuori. Giocano con il gomitolo di lana e saltano ovunque. Se ne hanno voglia, si fanno accarezzare. Corrono dei rischi quando attraversano la strada, nel traffico; ma le sette vite sono dalla loro, per cui possono permettersi degli azzardi.

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IL FOTOGRAFO DEI PELLEROSSA

Oggi incontriamo un autore che ha dedicato alla fotografia tutta la propria vita. Ne abbiamo parlato marginalmente in altre occasioni, quasi fosse una leggenda. In realtà, il suo operato merita rispetto, per l’ostinazione con la quale è stato portato avanti, tra l’altro con il rigore scientifico di chi vuole conoscere il soggetto che ha di fronte.

Il 16 febbraio 1868 nasce a Whitewater (Wisconsin) Edward Sheriff Curtis. Porterà avanti, pur tra mille difficoltà, uno dei più colossali progetti fotografici della storia: fotografare gli indiani del Nord America. Tutto inizierà il 30 Marzo 1906 e condizionerà la vita intera del fotografo, economicamente e anche per quel che concerne i rapporti familiari.
Per le riprese fotografiche Curtis ha percorso quasi 65.000 chilometri lungo tutto il territorio americano, utilizzando ogni mezzo di trasporto, dal treno alla canoa, dal cavallo alle lunghe marce a piedi. La sua opera conta circa 50.000 negativi e 10.000 registrazioni sonore, ottenute con un apparecchio rudimentale. Le sue fotografie sono più eloquenti di qualsiasi racconto: in alcune immagini gli atteggiamenti dei guerrieri ormai sulla via del tramonto o delle madri con i piccoli in braccio suggeriscono una fierezza e una tristezza infinite. Molti altri hanno fotografato i pellerossa, ma nessuno come lui ne ha condiviso la vita e la cultura, producendo una documentazione fotografica eccezionale, ma anche fondamentale dal punto di vista etnografico.

Ammirare la bellezza delle fotografie di Curtis vuol dire collocarle in una giusta prospettiva. Nonostante la dedizione e le difficoltà che il fotografo ha dovuto sopportare, la bellezza ultima di "The North American Indian" risiede non solo nel genio di Curtis, ma anche e soprattutto nei soggetti che aveva di fronte. La bellezza dei nativi, la forza, l'orgoglio, l'onore, la dignità e altre caratteristiche ammirevoli sono state registrate con il linguaggio fotografico, ma prima costituivano parte integrante del popolo. Mentre Curtis era un maestro nella sua arte, il popolo indiano possedeva la bellezza, quella trasmessa ai discendenti.

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