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NASCE FRANÇOIS TRUFFAUT

Con François Truffaut emergono i ricordi giovanili, quelli dei cineforum e delle serate “cult”. Ci viene così in mente “Finalmente Domenica”, con Fanny Ardant e Jean-Louis Trintignant, un “giallo dolce” che ricordiamo con affetto. E’ l’ultimo film del regista, da lui progettato con convinzioni precise. Volle tornare al bianco nero (per rendere meglio il noir), con dei tempi di “girato” brevi e incessanti, per un effetto da pellicola di a basso costo. La pellicola è stata girata in una cittadina vicino Tolone, e possiede un ritmo incalzante, con poche pause; e risulta moderna per questo. La resa estetica coinvolge, “a metà tra Alfred Hitchcock e Robert Doisneau”, è stato scritto; e forse questa è la ragione per la quale ricordiamo pellicola con nostalgia. br Il personaggio interpretato da Fanny Ardant è tra quelli indimenticabili del cinema francese; e il film inizia proprio con lei e la sua lunga passeggiata durante i titoli di testa. Sotto i tacchi dell’attrice potrebbero echeggiare le parole di Bertrand Morane: “Le gambe delle donne sono compassi che misurano il globo terrestre in tutti i sensi.” Bertrand era il personaggio chiave di un altro lavoro del nostro regista: “L’uomo che amava le donne”, ma in effetti, in quella camminata di Fanny c’è tutta la sensualità francese messa in un piano sequenza.

Inopinatamente, ci viene in mente un altro film, italiano questa volta: “La Lingua del Santo”, di Carlo Mazzacurati), girato nel 2000. Lì uno dei protagonisti (Fabrizio Bentovoglio) ricorda Patrizia (Isabella Ferrari), l’amore perduto, mentre lei cammina lungo un fiume, in una sequenza indimenticabile. La pellicola persegue altri contenuti, ma la scena è di estrema eleganza.

Concedeteci un ultimo ricordo giovanile (forse troppo). Si tratta di un altro film di François Truffaut, dal titolo “Effetto Notte”, con una splendida Jacqueline Bisset. Il titolo ci riporta alla fotografia cinematografica, dove, per simulare la notte, si girava in pieno giorno con un filtro blu davanti l’obiettivo della macchina da presa. Era il 1973, si usava la pellicola; e ancora non esistevano i sensori di oggi.

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FOTOGRAFIA DA LEGGERE …

Consueto appuntamento del lunedì, con “Fotografia da leggere”. Questa volta incontriamo un lavoro che da subito ci ha incuriosito: “Il fotografo non si annoia mai”, Idee, riflessioni e aneddoti sulla fotografia; di Marco Scataglini (Edizioni Penne & Papiri).
Una volta acquistato il libro, ci siamo chiesti: «La fotografia ci ha aiutato contro la noia?». La domanda di certo è fuori luogo, perché poi ci siamo accorti che nel volume si parlava d’altro. Consci dell’errore (ci perdoni l’autore), non ci siamo persi d’animo: anche perché col tempo, e l’età (ahimè), il nostro rapporto con la fotografia è cambiato radicalmente. Non vogliamo misconoscere gli esordi, quelli dei balzelli all’ingresso, determinanti in era analogica. Allora l’oggetto tecnico abitava nei sogni del nostro pensiero fotografico. Anni dopo è iniziata lo studio dell’autore, fotografico e non solo; poi siamo passati alla ricerca della prossimità, quella quotidiana e vicina. Ci siamo così accorti che lo scatto è stato conglutinante nella nostra vita familiare, avvicinandoci alla felicità. Ecco, forse abbiamo capito che fotografi siamo: certamente “della domenica”, ma finalmente in grado di non buttare vie le idee tra le impronte digitali sul pulsante di scatto.
Che il libro parli di questo? Lasciamo a ogni lettore la risposta diretta; e, per non sbagliare, lasciamo che parli la sinossi del libro: sontuosa ed eloquente.

Finalmente un libro che non parla di tempi e diaframmi, di fotocamere e obiettivi, ma di te, del fotografo, colui il quale davvero realizza la foto! Questo manuale, in modo divulgativo e piacevole, t’introdurrà all'arte fotografica da una prospettiva completamente nuova. Come funziona il fotografo? Perché fa delle scelte e non altre? Come ragiona di fronte all'immagine e come può ricavarne il massimo? Scoprirai come funziona il cervello di un fotografo, come migliorarne le prestazioni, come sfruttare la propria creatività e in breve ottenere fotografie non semplicemente belle, ma che dicano qualcosa!

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JAMES JOYCE E BERENICE ABBOTT

Come ricordavamo lo scorso anno, James Joyce, scrittore, poeta e drammaturgo irlandese, nasceva a Dublino il 2 febbraio 1882. Di lui ricordiamo, personalmente, l’Ulisse e i Dubliners (Gente di Dublino), per noi entrambe letture giovanili. La nascita del letterato irlandese ci permette di ricordare Berenice Abbott. Lei ritrarrà Joyce in due occasioni: nel 1926, a casa sua; poi nel 1928, in studio. Conosciamola meglio.

Berenice Abbott nasce a Springfield, Ohio, il 17 luglio 1898. Studia giornalismo per un breve periodo alla Ohio State University prima di dedicarsi da autodidatta alla scultura a New York. Nel 1921 si trasferisce a Parigi divenendo parte dell’American expatriate society. Impara la fotografia lavorando come assistente nello studio di Man Ray, dal 1923 al 1925, che la incoraggia nei foto ritratti. Decide in seguito di dedicarsi in proprio alla fotografia di ritratto immortalando personaggi famosi, tra i quali Max Ernst. Le sue foto si distinguono da quelle di Man Ray per il tentativo di catturare la gestualità e le espressioni del volto, secondo uno stile ritrattistico che sarà sinonimo di Abbott. Tiene una prima personale a Le Sacre du Printemps nel 1926 e la sua reputazione è già affermata quando, nel 1928, partecipa alla collettiva “Premier Salon Independant de la Photographie”.
Nello studio di Man Ray, Abbott conosce Eugène Atget (1857-1927), un fotografo documentarista che influenzerà la sua successiva produzione fotografica. Abbott acquista migliaia di negativi e stampe dallo studio di Atget prima di tornare a New York nel 1929. Seguendo l’esempio di Atget documenta la città di New York (la gente e gli edifici) in una serie di scatti che verranno pubblicati nel volume Changing New York (1939). Negli anni quaranta e cinquanta si dedica alla fotografia scientifica, adattandovi equipaggiamento e tecnica.
Berenice Abbott muore a Maine il 9 dicembre 1991.

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LA LUCE DELL’AMORE

Tre fiammiferi accesi uno per uno nella notte
Il primo per vederti tutto il viso
Il secondo per vederti gli occhi
L’ultimo per vedere la tua bocca
E tutto il buio per ricordarmi queste cose
Mentre ti stringo fra le braccia.

Jacques Prévert

La luce dei fiammiferi è calda, tremolante e lascia solo intravedere. Accenderne tre, vuol dire guardare meglio o forse solo ricordare, perché l’amore si vive dentro: oltre lo sguardo, sulla pelle, in due, di notte. Del resto, “I ragazzi che si amano si baciano in piedi, contro le porte della notte; e non ci sono per nessuno”, dirà il poeta in un altro componimento.
“Trois allumettes” è una poesia che amiamo molto: c’è l’amore giovanile, con anche Parigi, la Senna, il vento primaverile. Prévert immaginava così l’attrazione e nelle righe ne è soggetto, perché in esse non si parla di lei, ma solo degli istanti.

In rete leggiamo che il “Nouvel Observateur” scopre in Francia una vecchia signora, Claudy Carter, ispiratrice dell’indimenticabile le “Feuilles mortes”, e cancellata da tutte le biografie di Prevert. «Jacques mi chiamava la sua fogliolina», racconta Claudy. «Io avevo 16 anni, lui 38. Adoravo calpestare le foglie secche e farle scricchiolare sotto i piedi». Anche nelle parole della vecchia signora c’è Prévert, ora non ci resta che leggerlo ancora.

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