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TERMINANO LE RIPRESE DEL FILM “GLI SPOSTATI”

4 novembre 1960, terminano le riprese del film "Gli spostati" (The Misfits), diretto da John Huston, sulla sceneggiatura di Arthur Miller, con Marilyn Monroe e Clark Gable. Accolto benevolmente dalla critica, per entrambi i protagonisti sarà l'ultimo film.

Il 4 novembre è una data importante, almeno per noi appassionati di fotografia: a Firenze straripa l’Arno (bello il reportage di Giorgio Lotti) e in più nasce Robert Mapplethorpe (1946). Gli anni scorsi, abbiamo già trattato entrambi gli accadimenti; così oggi ci rifugiamo in un film, “Gli spostati” appunto, che vede terminare le riprese proprio il 4 novembre (1960).

Tante storie s’intrecciano durante la lavorazione di quella pellicola. Peraltro, molti fotografi si sono interessati alle riprese e ai protagonisti. Elliott Erwitt, per Magnum, ha scattato la fotografia di gruppo degli interpreti. Ernst Haas era il fotografo di scena accreditato. Va poi citata Eve Arnold, la fotografa empatica con tutte le donne celebri che posavano per lei. Pare che Marilyn Monroe, sul set del film, abbia confessato a lei di essere esausta per via della sua vita sempre alla ribalta. Rimangono poi Inge Morath e Henri Cartier Bresson. Insieme hanno intrapreso un viaggio di diciotto giorni da New York a Reno (in Nevada) per fotografare le riprese de “Gli spostati”. Tra l’altro la fotografa lì conoscerà Arthur Miller, al momento marito di Marilyn Monroe, che sposerà nel 1962. Insieme condurranno una vita di grandi viaggi. Il rapporto tra i due si era consolidato nel 1961 durante le riprese del film “Uno sguardo dal ponte”, diretto da Sidney Lumet, basato sull'omonimo dramma del 1955 di Arthur Miller.

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NASCE IL REGGISENO

Il 3 novembre 1914, Mary Phelps Jacob, ventitreenne newyorchese, ottiene il brevetto del reggiseno. Oltre che per quell’invenzione epocale, diventerà famosa, con lo pseudonimo di Caresse Crosby, come editrice di grandi autori, tra cui: Ernest Hemingway, Henry Miller, Anaїs Nin e Charles Bukowski.

Non siamo esperti di moda, tantomeno d’intimo; ma non accogliamo con semplicità le affermazioni che definiscono il reggiseno come un elemento di seduzione. Può esserlo, per carità; e in molti film appare come tale. E’ comunque un accessorio indossabile da colei che l’utilizza, senza l’aiuto di nessuno; al contrario del corsetto, che prevedeva l’intervento di qualcun altro. Insomma, se rivoluzione è stata, ne ha tratto vantaggio la donna, che comunque lo sceglie per come vuole apparire, indossandovi sopra il vestito, senza cioè far sì che si veda per forza. Per il resto, nell’iconografia cinematografica, la donna in reggiseno appare il più delle volte in un ambiente domestico, a sottintendere confidenza o anche fretta d’agire, non per forza seduzione. Una donna mezza vestita, con quell’indumento addosso, sta per uscire e dialoga per quanto sarà. Di fotografie famose con il reggiseno come accessorio evocativo ve ne sono tante. Ne abbiamo scelte due, utili per accompagnare la storia della donna che l’ha inventato: la scena di un film e uno scatto di Helmut Newton; semplicità e seduzione, i due estremi possibili.

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CAMILLO BENSO DI CAVOUR, UNA FOTOGRAFIA IN TRIBUNALE

Il 2 novembre 1852, Camillo Benso conte di Cavour viene nominato Presidente del Consiglio del regno sabaudo. Con quel ruolo, prosegue l'opera di modernizzazione del regno: l'apertura verso i mercati esteri dell'economia piemontese, la realizzazione di numerose opere di canalizzazione e l'allargamento della rete ferroviaria. L’innalzamento del prelievo fiscale e i progetti di laicizzazione dello stato suscitano un forte disappunto. Il 26 aprile 1855 Cavour è costretto a rassegnare le dimissioni, ma il Re è costretto il 3 maggio a richiamarlo alla guida del governo.

Oggi, però, non parleremo di politica, ma di una fotografia che ritrae il conte Camillo Benso, scattata a Parigi. Finirà in tribunale, come elemento probante di una causa sui diritti d’autore o giù di lì: una novità per il tempo.

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NASCE IL RAGAZZO DI MEOLO

Non è la prima volta che ci occupiamo di Fulvio Roiter, ma mai lo abbiamo fatto in maniera approfondita. Ce ne sentiamo in colpa, questo è certo: per il valore del fotografo e per quanto ancora oggi ci sta lasciando, pur con la sua dipartita. Sentiamo solo il desiderio di giustificarci: non tanto per chiedere scusa, quanto per comprendere meglio quanto abbiamo letto, negli anni, all’interno delle sue immagini, ricche di un equilibrio formale quasi istintivo.

Ebbene, con Roiter non riusciamo a tirare in ballo le tante regole che attanagliano la fotografia “parlata”. Nelle sue immagini c’è l’attimo “bressoniano”? Non sappiamo. Troviamo il racconto degli umanisti? Difficile rispondere. Riconosciamo i dettami del reportage? Nessuno può dirlo. Con un po’ di umiltà, e con tanta paura di essere fraintesi (il nostro giudizio è oltremodo positivo) riconosciamo nel nostro le qualità di un prestigiatore, di un medium. Lui riesce a confezionarci degli scatti che possiedono, al loro interno, la giusta complessità, le prospettive inusuali, quel tanto di emozione che quasi non riesci a spiegarla: com’è giusto che sia. Per il resto (e anche qui chiediamo scusa) lui rimane un autore del dopoguerra, di quel periodo nel quale i circoli (leggendari i nomi: la Bussola, la Godola, e via dicendo) sono stati i promotori della fotografia italiana, assopita (non del tutto, a dire il vero) da un ventennio di rincorsa.

Di Roiter ci piace la sua prima Sicilia, la Venezia dei sogni, il Brasile; ma anche quella vita che l’ha portato, in gioventù, a dormire in stazione solo per frequentare quel circolo (la Gondola, in questo caso) che tanto gli stava dando in contenuti e consapevolezza. Tutto parte da lontano, dalla direzione che diamo alle storie della vita. Per il momento, guardiamo i suoi libri (ne possediamo tre) e ci consoliamo con le immagini. La speranza è quella per la quale la poca attenzione che gli abbiamo dedicato rimanga solo un episodio, non replicato da altri.

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