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CI VUOLE ORECCHIO

4 maggio 1980, Enzo Jannacci lanciava il disco “Ci vuole orecchio”. Lo stesso giorno, ma nel 1968, debuttava in classifica con “Vengo anch’io, no tu no”.

Quando la radio passava Enzo Jannacci mio padre ne era contento, e io con lui; soprattutto quando viaggiavamo in auto, col Voxson che trasmetteva una sua canzone. Che dire? Ci faceva star bene, per un piacere che non si poteva definire. Lui era al di fuori di tutto, oltre i luoghi comuni, certamente preparato musicalmente e per questo apprezzabile. In seguito imparammo che era medico e anche diplomato al conservatorio: segni di vitalità e ostinazione nell’impegno. Faceva anche ridere, Jannacci, perché era simpatico, a tal punto che ci si dimenticava del senso delle sue canzoni. Era il sorriso a vincere, quello sugli occhiali spessi e i capelli folti. In seguito capimmo, ma troppo tardi, che la sua era una storia milanese, nata sotto la Madonnina, quando ancora la città non era da bere, eppure frequentabile (eccome!) nel suo fermento serale e notturno.

«Vengo anch’io? No, tu no». Già, Enzo Jannacci ci ha lasciati soli, privandoci delle sue visioni sul mondo, del suo stare con i deboli. Sono passati undici anni dalla sua dipartita e le frasi musicali (e teatrali) da lui cantate ancora vagano nella nostra testa. «Quelli che fanno l'amore in piedi convinti di essere in un pied-à-terre, oh yeh», cantava Jannacci nel 1975; e noi ridevamo, inconsapevoli del fatto che quel brano era solo una pennellata di un affresco musicale più ampio. Sì perché lui ha spesso mescolato generi e stili, sempre raccontando storie, tra l’ironia e, a volte, la malinconia dei melodrammi di quel tempo.

Oggi però abbiamo tempo, almeno per capire. Il suggerimento ci è arrivato forte e chiaro: «Perché ci vuole orecchio, bisogna avere il pacco, immerso dentro al secchio. Bisogna averlo tutto, anzi parecchio. Per fare certe cose, ci vuole orecchio». Del resto, la stessa musica è più importante di chi canta perché “l’orchestra va avanti anche da sola” e senza base non si può cantare; ma il “pacco immerso” vuol dire che occorre crederci, in prima persona, non lesinando l’impegno.

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MARGARET THATCHER PRIMO MINISTRO

3 maggio 1979 Margaret Thatcher, prima donna nella storia, viene nominata Primo Ministro dalla regina Elisabetta II. La sua politica, nota come Thatcherismo, risultò essere molto controversa. I favorevoli ricordano la modernizzazione economica e il maggior peso politico internazionale, i detrattori sottolineano ancora l'aumento delle diseguaglianze sociali.

La Thatcher condusse i conservatori a una decisiva vittoria elettorale nel 1979 a seguito di una serie di grandi scioperi durante l'inverno precedente (il cosiddetto "inverno del malcontento"), sotto il governo del Partito Laburista di James Callaghan. In qualità di primo ministro che rappresentava la nuova energica ala destra del Partito conservatore (i "Dries", come si chiamarono in seguito, in contrasto con i conservatori moderati vecchio stile, o "Wets"), Thatcher sostenne una maggiore indipendenza dell'individuo dallo stato; la fine della presunta eccessiva interferenza del governo nell'economia, compresa la privatizzazione delle imprese statali e la vendita di alloggi pubblici agli inquilini. Ridusse le spese per i servizi sociali, come l'assistenza sanitaria, l'istruzione e l'alloggio. Limitò la stampa di moneta secondo la dottrina economica del monetarismo. Il termine thatcherismo finì per riferirsi non solo a queste politiche, ma anche ad alcuni aspetti della sua visione etica e del suo stile personale, tra cui l'assolutismo morale, il feroce nazionalismo, uno zelante rispetto per gli interessi dell'individuo e un approccio combattivo e intransigente in politica.

Margaret ebbe anche il merito, quando tutti davano ormai per scontato il tramonto della Gran Bretagna, di aver restituito ai suoi concittadini l'orgoglio di essere inglesi, impegnandoli addirittura in un’impensabile guerra contro l'Argentina, in difesa delle dimenticate isole Falkland.

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UNA BANDIERA ROSSA SU BERLINO

Oggi incontreremo una fotografia costruita, ma non ingannevole: celebra la vittoria dell’URSS sulla Germania nella Seconda Guerra Mondiale. Una storia interessante.

Aveva ventotto anni, il fotografo Yevgeny Khaldei, quando scattò l’immagine più famosa della vittoria dell’URSS sulla Germania: la bandiera rossa issata dai soldati sovietici sul Reichstag, la sede del parlamento tedesco, il 2 maggio 1945. Khaldei aveva visto la fotografia della bandiera americana issata sul Monte Suribashi, a Iwo Jima, nel febbraio 1945, scattata da Joe Rosenthal. Voleva fare qualcosa di simile, riuscendovi peraltro.
Khaldei arrivò a Berlino con un enorme drappo rosso formato da due tovaglie cucite insieme con una falce e martello applicata sopra, opera di un sarto a Mosca. Reclutò in strada tre soldati e con loro mise in scena l’evento sul tetto dell’edificio. Come già a Iwo Jima, una bandiera era già stata innalzata qualche giorno prima, il 30 aprile; ma nel cuore della notte, al buio, mentre ancora si combatteva. Ora che la battaglia per il Reichstag era finita, Khaldei potè scattare con calma le sue trentasei fotografie, un intero rullino.

Uno degli scatti divenne subito famoso e venne pubblicato sul settimanale illustrato Ogonek il 13 maggio. Per offrire ulteriore drammaticità all’immagine Khaldei aggiunse un po’ di fumo sullo sfondo, come se i combattimenti fossero ancora in corso. Non fu l’unica operazione ritocco. Venne notato che il secondo soldato della foto, quello che sostiene chi sta issando la bandiera, aveva due orologi al polso. Poteva essere il segno di qualche qualche saccheggio. Il secondo orologio fu così rimosso.

Yevgeny Ananievich Khaldei, come fotografo di guerra aveva documentato tutti gli anni del terribile fronte orientale, dal 1941 in poi, per conto della TASS. Ebbe gloria e onori, fu presente alla conferenza di Postdam e ai processi di Norimberga. Ebbe anche guai per il suo essere ebreo e fu licenziato dalla TASS. Venne riassunto dalla Pravda dopo la morte di Stalin.

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QUARTO POTERE AL CINEMA

1 maggio 1941. "Quarto Potere", il primo lungometraggio del giovane regista Orson Welles, esce in tutte le sale cinematografiche americane. E’ considerato un capolavoro della cinematografia mondiale.

Gli scorsi anni ci occupammo dell’Empire State Building (inaugurato il 1° maggio del 1931), della Festa dei Lavoratori, ma anche di Sally Mann (nata nel 1951, sempre il primo giorno di maggio) e Ayrton Senna (deceduto nel 1994 a Imola).
Ci sarebbe tanto altro da dire, in questo 1° maggio; perché la fotografia è come la vita: propone e ripropone, salvo poi sorprenderci quando esce dal cassetto, inaspettatamente, facendoci ridere, piangere e meravigliare.

Torniamo a Quarto potere. Il titolo originale del film è Citizen Kane, cioè il cittadino Kane: l’incarnazione del sogno americano, la storia di un cittadino umile che riesce a costruirsi un vero e proprio impero.
La figura di Kane era vagamente ispirata a quella del reale imprenditore William Randolph Hearst, che si adirò non poco all’uscita del film.
Nel 1942 il capolavoro di Welles ricevette 9 candidature ai Premi Oscar: miglior film, migliore attore protagonista (Welles), migliore regia, migliore sceneggiatura originale, migliore fotografia, migliore sonoro, migliore montaggio, migliore musica. Vinse solo una statuetta per la migliore sceneggiatura firmata da Welles e Herman J. Mankievicz. Il film fu un clamoroso insuccesso di pubblico e critica, ma Quarto potere resta ancora oggi uno dei migliori film nella storia del cinema.
Un’opera senza tempo, rivoluzionaria in ogni inquadratura, Quarto potere è un film di attualità sconcertante nel mettere a fuoco il potere dei media e l’inafferrabilità della complessità umana. Per mostrare la realtà immaginata di un magnate in ascesa e declino Welles mette in scena fittizi cinegiornali, punti di vista difformi e contraddittori, scene spiazzanti e mai viste prima. In Quarto potere troviamo un’inquadratura dall’alto di un giovane Kane in piedi a gambe larghe su cataste di suoi giornali. La scena indica potere, spavalderia, onnipotenza, nonostante l’angolazione della ripresa.
Alla fine, ecco l’insegnamento: l’essenza di un uomo resta e resterà inafferrabile. Possiamo coglierne aspetti, frammenti parziali; ma davanti alla sua morte nemmeno chi “lo conosceva bene” riesce a comprenderlo del tutto.

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