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LA PRIMA DI “ROMA CITTA APERTA”

“Roma città aperta”, il film di Roberto Rossellini, fu proiettato in anteprima a Roma, al teatro Quirino, il 24 settembre 1945. La pellicola mostra una delle scene più famose del cinema mondiale, con Anna Magnani che insegue il camion che sta portando via il futuro marito. Lavoro squisitamente neorealista, tra le comparse vi erano gli abitanti del posto, quelli di via Montecuccoli, nel quartiere Prenestino.

Roma città aperta è un film lucido, sincero, vero fino in fondo. I fatti sono raccontati come in una cronaca, senza licenze di fantasia o retorica, al contrario di quanto accadeva nel cinema americano. La pellicola certamente si presenta come un atto di accusa, senza forzare la mano però. Ecco che le sequenze degli interni romani, o anche quelle delle strade, restituiscono un sapore poetico ad alta suggestione. Gli stessi personaggi sono trattati con cura, scolpiti realmente nella pellicola, per come sarebbero dovuti essere.
Rossellini ha diretto il lavoro senza concedere nulla al caso, rinunciando volutamente alla propaganda. Nessuno pronuncia la parola “fascismo” e nemmeno si è caduti nella propaganda più bieca. Anche i tedeschi sono stati interpretati con generosità: belli e corretti, se pure crudeli.

Rossellini inizia a girare il film già due mesi dopo la liberazione della città ed è pervaso da un senso di urgenza, quello generato da un presente rassicurante che avrebbe potuto edulcorare fatti e accadimenti avvenuti.
Roma città aperta nasce senza sonoro, muto per ragioni di costo. La pellicola andava razionata e la presa diretta avrebbe aumentato il numero dei ciack.

Per finire, ricordiamo come Roma città aperta abbia influenzato la vita privata di Rossellini. L’attrice Ingrid Bergman nel vederlo ne rimase folgorata e scrisse una lettera al regista, con queste parole: «Se ha bisogno di un'attrice svedese che parla inglese molto bene, che non ha dimenticato il suo tedesco, non si fa quasi capire in francese, e in italiano sa dire solo "ti amo", sono pronta a venire in Italia per lavorare con lei». I due si sposarono nel 1950.

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GINO PAOLI, LA MUSICA CON L’AMORE

Parlando di Gino Paoli viene subito in mente “Sapore di Sale”, la canzone delle spiagge per eccellenza, datata 1963. Pare sia stata composta a Capo d’Orlando, in Sicilia, ispirata dall’amore del cantante per Stefania Sandrelli. Sapore di Sale è una canzone molto semplice, costruita su un giro di accordi che si ripete più volte, con un intermezzo a cambiarne direzione; gli arrangiamenti, che arricchiscono il tutto, sono a cura di Ennio Morricone. Riconoscibile (e indimenticabile) è l’introduzione col basso elettrico “pennato”. Il ritornello poi, quando non cantato, viene ripreso dal sax di Gato Barbieri, il noto jazzista argentino. Tanta roba.

“La musica con l’amore”, dicevamo nel titolo; ma in effetti non è difficile leggere (e ascoltare) nelle canzoni di Gino Paoli una sorta di diario personale tra le donne della sua vita. Ne escono amori non convenzionali, dove la fine riporta all’inizio, per un’emotività che non termina, esaltandosi nel tempo. «Che cosa c’è, c’è che mi sono innamorato di te» forse è una frase che lui ha pronunciato di fronte a lei prima ancora di cantarla. Del resto, Gino Paoli questo ci ha insegnato: « Senza fine, tu sei un attimo senza fine. Non hai ieri e non hai domani. Tutto è ormai nelle tue mani, mani grandi, mani senza fine».

Gino Paoli negli anni ’60 ha rappresentato la colonna sonora di un’Italia nuova, diversa, appena nata: meno contadina e più industriale, produttiva, vacanziera, migratoria e con le case nuove. Da subito, però, ci ha fatto conoscere il rimpianto, perché: «Ho una casa bellissima, bellissima come vuoi tu; ma io ripenso a una gatta, che aveva una macchia nera sul muso, a una vecchia soffitta vicino al mare, con una stellina che ora non vedo più». Quella gatta, forse, rappresenta l’amore di Paoli, quello che non si dimentica. Lui l’ha respirato a lungo e messo tra le note: la musica con l’amore, appunto.

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ANDREA BOCELLI, LIRICO E POPOLARE

Ascoltiamo volentieri la musica lirica, ma l’approccio con Andrea Bocelli è stato difficile, tormentato. Educati come puristi dalle generazioni precedenti, abbiamo sempre storto il naso quando il bel canto usciva dai luoghi sacri dell’ascolto o di fronte a esibizioni di grandi voci intente a cantare brani di musica popolare. Col tempo, e un po’ di saggezza, ci siamo convinti che sarebbe stato meglio rinnegare idee e pregiudizi. La lirica deve uscire sulle strade, usare i media più diffusi, perché rimane pur sempre un patrimonio culturale da preservare e diffondere. Le critiche, spesso eccessive, vanno lasciate nei loggioni, perché Verdi e Puccini rappresentano pur sempre un ascolto gratificante e piacevole.

Arriviamo a Bocelli. Di lui, oggi, apprezziamo il timbro vocale, rameico e colorato; in più gli attribuiamo il merito di aver reso iconici alcuni brani, riconoscibili con facilità in ogni passaggio in radio o attraverso la TV. Il successo non vogliamo misurarlo in numeri (eclatanti, peraltro), ma nell’applicazione che è stata necessaria per raggiungerlo; e qui il nostro non ha bisogno di suggerimenti da parte di nessuno. Leviamoci il cappello.

Per la fotografia, abbiamo chiesto aiuto a Guido Harari (grazie), come accade spesso. I suoi ritratti ci piacciono molto: sia quando sono stretti e intimi, ma anche se diventano ambientati. Nell’immagine che proponiamo, si respira un’aria mistica, religiosa: dove il contorno prevale sul soggetto. Bene così.

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BUON COMPLEANNO ELVIS

Il 21 settembre del 1995 viene pubblicato “Buon compleanno Elvis”, di Luciano Ligabue; il suo quinto album. In estate era stato lanciato il singolo “Certe notti”, un grande classico del repertorio di “Liga”, poi inserito nel disco.
Buon Compleanno Elvis è stato senza dubbio l’album della consacrazione di Luciano Ligabue, che nel frattempo aveva cambiato pelle, maggiormente orientato verso il rock americano, con tante tinte blues.

Ascoltiamo spesso il brano “Certe notti”, per ragioni affettive oltre che musicali. Ne riconosciamo l’Emilia giovanile, quella della “macchina calda” che ti portava dove voleva. Col buio tutto cambiava: le strade, i luoghi, le persone. C’era tanta America, in quelle ore, con una strada lunga a confondersi con l’orizzonte, popolata di bar, Autogrill, di posti già conosciuti e confortevoli. Le stagioni non erano importanti: neve, nebbia o caldo schiudevano un “sud” percepibile da pochi in una regione operosa di natura. Il West, quello Americano, era più vicino, quasi a portata di mano. Del resto: «La radio che passa Neil Young sembrava aver capito chi sei». C’era poi l’amica pronta a leccarti le ferite, perché la notte emiliana accendeva i pensieri e quei sentimenti. Sarebbe bello tornare indietro, ma oggi tutto è diverso. Già il telefono rende virtuali gli incontri, un tempo solo oggettivi; e quei posti forse non esistono più. Tornarvi vorrebbe dire diventare profughi di un’esistenza, reduci di una gioventù non procrastinabile, nonostante il West sia ancora lì, dietro l’angolo. Basta ascoltarlo.

Per le fotografie ci siamo rivolti a un ritratto di Guido Harari, del 1995. L’interpretazione è schietta, sincera. Ne esce un’artista riflessivo, pronto a tutto. Del resto in quell’anno avveniva una svolta e il bello doveva ancora arrivare.

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