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2 OTTOBRE, LA FESTA DEI NONNI

In Italia, il 2 ottobre si celebra la Festa dei Nonni. La ricorrenza cade il giorno in cui la Chiesa celebra gli Angeli ed è stata istituita dal Parlamento nel 2005. Le istituzioni hanno così voluto confermare il ruolo dei nonni nella nostra società, dove rappresentano un importante punto di riferimento, una risorsa di grande valore, un patrimonio di ricchezza dal quale attingere aiuto nell’educazione dei giovani all’interno delle famiglie d’appartenenza.

«Scatto a mia nonna le ultime pose», così cantava il brano degli Stadio “Chiedimi chi erano i Beatles”. Già, agli anziani si dedicavano gli ultimi scatti di un rullino ancora in vita nel cassetto buono. E’ il grande merito della fotografia, quello di regalare la salvezza alla vita di quanti oggi, forse, non esistono più. Chi scrive (scusate) oggi i nonni può solo ricordarli, ma almeno ne testimonia la presenza a coloro che non li hanno potuti vedere; sempre per merito di quell’immagine uscita all’improvviso da una scatola di cartone. Il tempo con loro era il regalo della promozione, tipicamente d’estate; e ogni anno accadeva il miracolo: si accendeva un tempo diverso, nei rituali e nelle ricorrenze. L’età anagrafica ne restituisce una nostalgia profonda, che poi è alla base di una felicità tipicamente fotografica: la meraviglia nel ricordo d’istanti e luoghi, un anno dopo l’altro.

Circa le fotografie, abbiamo scelto immagini a firma Paolo Di Paolo e Gianni Berengo Gardin. Il primo ci propone due nonni “al vero”, e questo ci aiuta. Il fotografo di Santa Margherita ligure mostra invece un’immagine d’atmosfera: due anziani nella loro casa, dove l’abitazione era il soggetto da cui è nato il volume con Luciano D'Alessandro, "Dentro le case". Non importa, i nonni sono anche quello: le persone e i gesti che compiono nel loro ambiente. A pensarci, li ricordiamo così.

Nel proseguo leggeremo concetti già detti, ma di fronte ai nonni non potevamo esimerci dal ripeterci.

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LA SCUOLA DELL’OBBLIGO

1 ottobre 1963. Entra in vigore la legge istitutiva della scuola media statale. La frequenza è obbligatoria e gratuita per tutti. Per 15 anni, sino al 1977, l’insegnamento del latino sarà facoltativo per gli studenti di terza media. Nasce anche il doposcuola.

Cosa ricordare della scuola media? Chi scrive non ama gettare la memoria in quegli anni, perché difficili, complicati. C’era la musica (non dimentichiamolo) e poi il latino. L’incubo però arrivava con l’ora di ginnastica: la pertica era impossibile a scalarsi, figuriamoci la corda! E poi poteva capitare la cavallina, da saltare a gambe larghe: mai tentato di farlo. Il fisico adiposo di chi adesso sta ricordando certo non agevolava la mobilità, figuriamoci l’esercizio ginnico. C’era però la prof di matematica: bellissima. Un dolce ricordo in tre anni da dimenticare.

Passiamo alla fotografia: è meglio. Per simbolizzare la scuola abbiamo scelto due interpreti famosi e altrettante immagini: lo scolaro e gli scolari. Circa lo scatto di Berengo (tra l’altro, a breve sarà il suo compleanno), le parole non contano: soggetto e contesto; l’alunno guarda in camera, mentre la vita continua il suo corso. Reportage puro, bene così.
La fotografia di Doisneau è più complessa, pur nella sua dolce semplicità. Uno scolaro pensa (o è stato indotto a farlo), mentre l’altro copia con gli occhi. In quello sguardo c’è tutto il reticolo del racconto. Per il resto, la classe si perde nella sfocatura, perché non occorre identificare la scuola, ma solo simbolizzarla. L’atmosfera è d’altri tempi, esaltata però da un interprete che amava stare al di qua della vita vissuta, solo per starla a guardare. Bene così, giusto così.

Ricordiamolo: il 1° ottobre 2004 muore Richard Avedon. Di lui abbiamo parlato spesso.

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RENATO ZERO, POESIA IN MUSICA

Non abbiamo mai ascoltato Renato Zero con attenzione, nemmeno in gioventù. Eravamo sorpresi dal suo successo, meravigliati dal suo porsi sul palco, quasi indispettiti quando le ragazze cantavano a memoria le sue canzoni. Erano i tempi del rock, dei cantautori impegnati, dei giullari, di quella via Emilia (per chi scrive) di passaggio, aeroporto naturale per l’America. Eppure, Renato Zero evolve, cambia, si pone in maniera differente; ed è ancora lì, volto di successo sul palco e altrove, nel regno della musica.

Oggi, è proprio la gioventù trascorsa a farci riflettere, e rileggere possiamo dire; perché i testi del cantante romano meritano una riflessione, la stessa che sconfigge il tempo e le mode. “I migliori anni della nostra vita” suona in auto, e qualche rimpianto stringe la gola. «Penso che è stupendo restare al buio abbracciati e muti. Come pugili dopo un incontro. Come gli ultimi sopravvissuti. Forse un giorno scopriremo che non ci siamo mai perduti. E che tutta quella tristezza in realtà, non è mai esistita!». Già, quale tristezza? Forse quella di “Aspettando Godot” (Claudio Lolli) o anche altre, come quella cantata in “Incontro” (Francesco Guccini). Ne è valsa la pena? Forse sì, perché eravamo così, convinti che la felicità passasse dalla gioia di essere tristi.

Dobbiamo però riconoscere a Renato Zero i meriti che non gli abbiamo mai attribuito. Poeta lo era (e lo è) veramente, oltre la retorica che ci ha fatto sempre storcere il naso. Ascoltiamo e leggiamo: «Il poeta si strugge al ricordo di una poesia, questo tempo affamato consuma la mia allegria, canto e piango pensando che un uomo si butta via, che un drogato è soltanto un malato di nostalgia, che una madre si arrende e un bambino non nascerà, che potremmo restare abbracciati all’eternità» (da Più su). Che dire? Abbiamo la possibilità di rileggere la nostra gioventù, pensando anche a quella ragazza che cantava Zero a memoria. Il nostro tempo si salverebbe, con una tristezza rinnovata, perché alla fine è sempre lì andiamo a finire.

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TANTI AUGURI, MAESTRO

Oggi, 29 settembre, compie gli anni Nino Migliori: non solo un fotografo, ma anche un ricercatore nell’ambito della fotografia. Parte come neorealista (e bravo, peraltro), ma poi intraprende svariate vie di sviluppo artistico, ramificate e interessanti. Lo abbiamo visto ritrarre delle persone illuminandole con un cerino, però non è stato “lo strano” a stupirci, piuttosto la volontà di sconfinare dalla fotografia all’arte, sperimentando di continuo; ecco quindi le alchimie, le prove continue per allargare le possibilità espressive dello scatto fotografico.

Nino Migliori non si accontenta dei primi successi e forse non gli servono neanche. Negli anni cinquanta frequenta il salotto di Peggy Guggenheim a Venezia ed è a quegli incontri, come quelli a Bologna con autori come Vasco Bendini, Vittorio Mascalchi, Luciano Leonardi, Manaresi e altri, che trova sostegno e affinità culturale. E’ la pittura a stimolarlo, particolarmente l’espressionismo astratto di Jackson Pollock. Lì comprende come sia possibile rompere con i luoghi comuni, quasi necessario forse. Si assume quindi dei rischi: la sua fotografia sarà di sperimentazione. Contenuti e composizioni non faranno parte delle sue immagini, tantomeno complessità estetizzanti. Sarà il senso del gesto a emergere, dove l’elemento artistico non si nutre degli orpelli tradizionalmente legati allo scatto.

Ecco cosa Nino Migliori dice di sé: «Se è ancora valida la definizione per la quale fotografare è scrittura di luce, e considerando che ho sempre cercato qualcosa di simile alla scrittura usando la luce, allora posso definirmi fotografo».

(Nino Migliori)

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