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RENATO ZERO, POESIA IN MUSICA

Non abbiamo mai ascoltato Renato Zero con attenzione, nemmeno in gioventù. Eravamo sorpresi dal suo successo, meravigliati dal suo porsi sul palco, quasi indispettiti quando le ragazze cantavano a memoria le sue canzoni. Erano i tempi del rock, dei cantautori impegnati, dei giullari, di quella via Emilia (per chi scrive) di passaggio, aeroporto naturale per l’America. Eppure, Renato Zero evolve, cambia, si pone in maniera differente; ed è ancora lì, volto di successo sul palco e altrove, nel regno della musica.

Oggi, è proprio la gioventù trascorsa a farci riflettere, e rileggere possiamo dire; perché i testi del cantante romano meritano una riflessione, la stessa che sconfigge il tempo e le mode. “I migliori anni della nostra vita” suona in auto, e qualche rimpianto stringe la gola. «Penso che è stupendo restare al buio abbracciati e muti. Come pugili dopo un incontro. Come gli ultimi sopravvissuti. Forse un giorno scopriremo che non ci siamo mai perduti. E che tutta quella tristezza in realtà, non è mai esistita!». Già, quale tristezza? Forse quella di “Aspettando Godot” (Claudio Lolli) o anche altre, come quella cantata in “Incontro” (Francesco Guccini). Ne è valsa la pena? Forse sì, perché eravamo così, convinti che la felicità passasse dalla gioia di essere tristi.

Dobbiamo però riconoscere a Renato Zero i meriti che non gli abbiamo mai attribuito. Poeta lo era (e lo è) veramente, oltre la retorica che ci ha fatto sempre storcere il naso. Ascoltiamo e leggiamo: «Il poeta si strugge al ricordo di una poesia, questo tempo affamato consuma la mia allegria, canto e piango pensando che un uomo si butta via, che un drogato è soltanto un malato di nostalgia, che una madre si arrende e un bambino non nascerà, che potremmo restare abbracciati all’eternità» (da Più su). Che dire? Abbiamo la possibilità di rileggere la nostra gioventù, pensando anche a quella ragazza che cantava Zero a memoria. Il nostro tempo si salverebbe, con una tristezza rinnovata, perché alla fine è sempre lì andiamo a finire.

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TANTI AUGURI, MAESTRO

Oggi, 29 settembre, compie gli anni Nino Migliori: non solo un fotografo, ma anche un ricercatore nell’ambito della fotografia. Parte come neorealista (e bravo, peraltro), ma poi intraprende svariate vie di sviluppo artistico, ramificate e interessanti. Lo abbiamo visto ritrarre delle persone illuminandole con un cerino, però non è stato “lo strano” a stupirci, piuttosto la volontà di sconfinare dalla fotografia all’arte, sperimentando di continuo; ecco quindi le alchimie, le prove continue per allargare le possibilità espressive dello scatto fotografico.

Nino Migliori non si accontenta dei primi successi e forse non gli servono neanche. Negli anni cinquanta frequenta il salotto di Peggy Guggenheim a Venezia ed è a quegli incontri, come quelli a Bologna con autori come Vasco Bendini, Vittorio Mascalchi, Luciano Leonardi, Manaresi e altri, che trova sostegno e affinità culturale. E’ la pittura a stimolarlo, particolarmente l’espressionismo astratto di Jackson Pollock. Lì comprende come sia possibile rompere con i luoghi comuni, quasi necessario forse. Si assume quindi dei rischi: la sua fotografia sarà di sperimentazione. Contenuti e composizioni non faranno parte delle sue immagini, tantomeno complessità estetizzanti. Sarà il senso del gesto a emergere, dove l’elemento artistico non si nutre degli orpelli tradizionalmente legati allo scatto.

Ecco cosa Nino Migliori dice di sé: «Se è ancora valida la definizione per la quale fotografare è scrittura di luce, e considerando che ho sempre cercato qualcosa di simile alla scrittura usando la luce, allora posso definirmi fotografo».

(Nino Migliori)

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NASCE LA PENICILLINA

28 settembre 1928. Nel suo laboratorio del Saint Mary's Hospital, Sir Alexander Fleming nota che una cultura batterica è stata attaccata e distrutta da alcune muffe. Fleming intuisce che i funghi del Penicillium notatum contenuti nelle muffe producono un potente antibiotico naturale, la penicillina. Questa scoperta varrà per Fleming il premio Nobel per la medicina.

Alexander Fleming era uno scienziato che dedicò la propria vita alla ricerca e, grazie a una semplice dimenticanza, fece una delle scoperte più importanti della medicina. Verificando lo stato di una coltura di batteri, vi trovò una copertura di muffa. Questo evento non aveva nulla di straordinario, poiché erano normali situazioni del genere; la cosa eccezionale fu invece il fatto che questa muffa aveva annientato tutti i batteri circostanti.

La penicillina, impiegata come farmaco, avrebbe cambiato le sorti dell’umanità e, ancora oggi, i suoi derivati sintetici costituiscono uno degli arsenali più potenti della terapia medica.

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ARTHUR PENN, IL REGISTA MODERNO

Conoscere l’opera di Arthur Penn vuol dire amare il cinema. Lui ha saputo portare sul grande schermo le contraddizioni della società contemporanea, mettendo in luce le ingiustizie del mondo; questo affrontando diversi stili: il noir, il western, il genere gangster. Passione e sentimento si mescolano nel suo cinema, nonostante la continua denuncia rivolta alla società americana.

Arthur Penn ha diretto i mostri sacri del cinema: da Marlon Brando a Robert Redford, da Jane Fonda ad Ann Bancroft, da Warren Beatty a Dustin Hoffman, Paul Newman, Jack Nicholson e Faye Dunaway. E poi, la sua stessa vita sarebbe potuta diventare il soggetto di un film, partendo dall’infanzia difficile. Sono seguiti l’arruolamento nell’esercito a diciannove anni durante la Seconda guerra mondiale, i lunghi soggiorni in Europa e quella la passione per la fotografia ereditata dal fratello Irving. La frequentazione dell’Actors Studio e gli intensi contatti con Truffaut e Godard completano un personaggio diverso, dal portato ideologico imponente e tradotto in pellicola con straordinaria efficacia.

Penn è stato un regista “moderno”, innovativo peraltro. Ha cambiato il cinema di Hollywood, lasciando che altri potessero godere della sua semina.

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