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UN ANGELO CON LA TROMBA

E’ il 13 maggio del 1988. Chet Baker è appena precipitato da una finestra del quarto piano del Prins Hendrik Hotel, l’albergo che aveva scelto per la sua permanenza ad Amsterdam, dove si trovava per una serie di concerti. Quella sera avrebbe dovuto suonare con il sassofonista Archie Shepp, ma lui non è mai arrivato di fronte al pubblico che lo aspettava.
Le ipotesi più accreditate per l’accaduto furono, fin dall’inizio, la caduta accidentale o il suicidio, ma non si potevano escludere un incidente dovuto a un’overdose di eroina o a un omicidio. Quale fosse la causa, la cosa certa era che il jazz aveva perso per sempre, e troppo presto, uno dei suoi interpreti più intensi e poetici, un artista che grazie alla musica era riuscito ad arginare, anche se solo parzialmente, l’irrequietezza che abitava lui.
Chet Baker è stato uno dei più grandi trombettisti della storia della musica jazz: migliore tra i bianchi, secondo (forse) solo a Miles Davis. Cantante dal timbro vocale accattivante, ha legato il suo nome al celebre brano "My funny Valentine".
Tossicodipendente per oltre trent'anni, ha condizionato tutta la sua vita (e la carriera) per via di quel problema. La musica riusciva a restituirgli un po’ di serenità, e questo deve bastarci. Del resto, non si può avere tutto.

Chet ha frequentato anche l'Italia, tenendo molti dei suoi migliori concerti; recita anche in diversi film di casa nostra, chiamato da registi come Nanni Loy, Lucio Fulci, Enzo Nasso ed Elio Petri.
Dal 1975 risiede qui da noi. In molti all’inizio degli anni '80 lo incontrano a Roma, nel quartiere Monte Mario. Altri lo riconoscono mentre suona per strada, in via del Corso, purtroppo per soddisfare la propria tossicodipendenza. Era un angelo con la tromba per quanti sono riusciti ad ascoltarlo.

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JANE FONDA, L’ETERNA RAGAZZA

Che Jane Fonda appaia come un’eterna ragazza risulta evidente, anche esteticamente: l’hanno aiutata l’indole, la ginnastica e forse anche il bisturi. Degli anni verdi, però, lei ha sempre conservato l’atteggiamento battagliero e il sogno illuminante. Di solito i saggi consigliano di riuscire bene in una cosa nella vita e di investire, con l’avanzare dell’età, sugli aspetti forti del proprio esistere. Jane Fonda ha disobbedito ai suggerimenti logici, stravincendo le rinnovate sfide che si creava di continuo. Nella vita è stata tante cose insieme: attrice (vincitrice di due premi Oscar come miglior attrice protagonista), produttrice televisiva, sex symbol, pacifista, femminista, maestra del fitness e attivista.

Jane è diventata un’icona per generazioni intere. Ci è riuscita per il suo attivismo, che ha origine con le proteste contro la guerra in Vietnam, la difesa dei Nativi americani, il suo arresto sotto l’amministrazione Nixon fino, ad arrivare alle manette del 2019, quando nei Fire Drill Fridays a Washington davanti al Campidoglio dava battaglia contro i cambiamenti climatici fino a farsi ammanettare.
E continua, Jane: nonostante la salute, si allena e allarga il suo attivismo. Nonostante l’età, sbarca su Tik Tok (il social dei giovanissimi) e parla a favore dell’ambiente. Oggi spegne 85 candeline e in tanti, idealmente, saranno con lei, per ragioni diverse: anche coloro che l’hanno sognata in Barbarella. Era bella Jane sullo schermo, non dimentichiamolo.

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LAMPADA OSRAM

La Stazione Termini in Roma fu inaugurata il 20 dicembre 1950 e per parlarne partiamo proprio dalla Lampada OSRAM, un lampione altissimo eretto sul piazzale antistante lo scalo ferroviario. I ricordi di gioventù ci riportano lì, perché era il luogo degli appuntamenti per chi provenisse da destinazioni diverse. Tra l’altro la struttura, poi disinstallata, è stata protagonista dell’omonima canzone di Claudio Baglioni, incisa nell’LP Sabato Pomeriggio (1975).
La Stazione Termini, però, non è solo un nodo dei trasporti di Roma, ne rappresenta anche un simbolo culturale, poi adottato dal cinema, italiano e internazionale. Cinecittà ha spesso ambientato i suoi film in quel luogo di binari, fatto d’incontri e di addii, di vite che s’incrociano e strade che si separano. Del resto, un po’ tutte le stazioni sono così: fotogeniche per definizione, perché non frequentate a caso, ma con uno scopo; e quindi ricche di storie individuali. Ne sanno qualcosa i Fratelli Lumière, che hanno ambientato un loro corto con un treno che arriva tra la gente che lo aspetta. Il titolo era: “L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat” (1896). Tre anni dopo l’inaugurazione dello snodo ferroviario di Roma, Vittorio de Sica diresse un film intitolato proprio “Stazione Termini” (1953). Già prima dell’inaugurazione ufficiale, però, Termini fu utilizzata come set per una scena d’inseguimento in galleria nel film “Il cammino della speranza” di Pietro Germi, mentre a metà degli anni Ottanta Federico Fellini la scelse per la scena di apertura e di chiusura del suo film “Ginger e Fred”, nel quale si vede una stazione Termini tappezzata di finti cartelloni pubblicitari. Del resto, il treno e la stazione sono luoghi fondamentali del 900, il secolo durante il quale si sono espressi cinema e fotografia, che pure guardano altrove, verso un mondo nuovo, a volte migliore; un po’ come il treno, col quale si viaggia verso una destinazione consapevole, oggettiva e mentale. L’appuntamento per tutti noi è lì, sotto quella luce che non c’è più, ma che ancora illumina la nostra fantasia: Lampada OSRAM.

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FOTOGRAFIA DA LEGGERE …

Consueto appuntamento del lunedì con “Fotografia da leggere”. Questa volta incontriamo un lavoro originale, simpatico anche; che ci permette un’ulteriore riflessione sulla fotografia, se pure da un’angolazione differente dal solito: “Catturare Il Tempo, lentezza e rapidità nella fotografia”, di Diego Mormorio (Edizioni Postcard).
«Indietro non si torna», è ciò che parrebbe suggerirci, con una frase un po’ militaresca, la storia della fotografia; questo soprattutto se considerata dal punto di vista della genesi dell’immagine. Dal 1839, tanti sono stati i punti di non ritorno che hanno modificato il processo produttivo della nostra passione. Certo, il passaggio da analogico a digitale è stato uno di quei punti, ma già il dagherrotipo perse i favori dal 1855, con l’introduzione delle nuove tecniche al collodio umido e all'albumina, anche se utilizzato sino a fine ‘800. E poi, che dire dell’introduzione del rullino fotografico? Siamo nel 1888, o già di lì; e fu una rivoluzione. Ecco quindi la prima riflessione suggerita dal libro, racchiusa in questa domanda: «Di cosa si occupa la fotografia?». Luce a parte, da scrivere o leggere, fotografare significa portare avanti una pratica relazionale che si occupa di tempo. Su questo presupposto, Diego Mormorio ha costruito una storia della fotografia basandosi sulla durata del click. Anche in questo ambito l’evoluzione è stata incredibile, soprattutto se pensiamo al primo scatto di Joseph Nicéphore Niépce: “Veduta dalla finestra a Le Gras” (1826), otto ore di posa.
Molto è cambiato anche di recente. I sessantenni ricorderanno come le fotocamere a loro disposizione, belle a ricordarsi (tipo Canon FTb o Pentax K1000), permettevano come tempo rapido 1/1000 di secondo. Allora lo scatto tipo era 1/125 di secondo, diaframma f/5,6; f/8 o f/11, a seconda della luce. Ne è passata di acqua sotto i ponti, anche perché oggi gli ISO (non più ASA o DIN) consentono molto. Nulla è eterno, rassegniamoci. Leggiamo il libro di Mormorio e facciamocene una ragione.

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