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PENSIERO FILOSOFICO E FOLLIA

E’ difficile introdurre una personalità di spicco (oggi un pensatore), soprattutto quando la si vuole utilizzare per le fotografie che gli sono state dedicate. Gli accenni che faremo sul filosofo ritratto vogliono solo essere uno stimolo per indagare su di lui, cercando eventualmente ulteriori elementi che possano gettare un legame tra soggetto e immagine. Iniziamo comunque con una sua frase: «Forse oggi l'obiettivo principale non è di scoprire che cosa siamo, ma piuttosto di rifiutare quello che siamo. Dobbiamo immaginare e costruire ciò che potremmo diventare».

Inserito tra i grandi pensatori del XX secolo, Paul-Michel Foucault realizzò un progetto seguendo le orme di Friedrich Nietzsche, che sosteneva come continuasse a mancare una storia della follia, del crimine e della sessualità, da lui considerata come un’invenzione moderna.

Una delle opere più importanti di Paul-Michel Foucault consiste nella “Storia della follia”, all’interno della quale si trova una ricerca delle coordinate teoriche della patologia stessa. Dall’opera si legge: «Forse, un giorno, non sapremo più esattamente che cosa ha potuto essere la follia. Resterà soltanto un enigma di questa esteriorità. Qual era dunque, ci si domanderà, questa strana delimitazione che è stata alla ribalta dal profondo Medioevo sino al ventesimo secolo e forse oltre? Perché la cultura occidentale ha respinto dalla parte dei confini proprio ciò in cui avrebbe potuto benissimo riconoscersi, in cui di fatto si è essa stessa riconosciuta in modo obliquo? Perché ha affermato con chiarezza a partire dal XIX secolo, ma anche già dall’età classica, che la follia era la verità denudata dell’uomo, e tuttavia l’ha posta in uno spazio neutralizzato e pallido ove era come annullata?».

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NASCE DWIGHT EISENHOWER

Abbiamo parlato di Eisenhower tre anni or sono, con una notizia breve, accompagnata dalla fotografia di un noto ritrattista: Richard Avedon. Si trattava di un’immagine scattata a Palm Springs, in California, il 31 gennaio 1964. In essa, stretta nell’inquadratura, si riconosceva la personalità del fotografo americano. Del resto, lui stesso affermava: «C’è molto più di me, nei ritratti delle persone che fotografo, di quanto non appaia di loro». Quello scatto ci ha stimolato, oggi, a cercare altri autori che abbiano interpretato il Presidente americano. La nostra attenzione è caduta su Philippe Halsman e Yousuf Karsh. Il primo era solito far saltare i propri soggetti, per una ragione “logica”: «Ogni inibizione dovuta alla presenza dell’obiettivo viene annullata, perché l’attenzione è rivolta maggiormente al salto. Vengono così rivelati i veri tratti del viso». Qui Halsman ci offre un’immagine curiosa, che ritrae Eisenhower con i suoi fratelli, in un momento di distrazione.

Karsh, illuminando in modo sensibile i suoi soggetti, con luci “teatrali”, si è sempre sforzato di evidenziare i tratti distintivi che trasmettessero il senso della loro individualità. Il momento decisivo per lui, quello nel quale avrebbe rilasciato l'otturatore della fotocamera, emergeva quando la maschera pubblica del suo soggetto si sollevava, anche se solo per un attimo e di sfuggita. Karsh ha scritto: «Il fascino senza fine di queste persone per me risiede in quello che chiamo il loro potere interiore. Fa parte dell'inafferrabile segreto che si nasconde in tutti, ed è stato il lavoro della mia vita cercare di catturarlo su pellicola».

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“SIGNORA IN GIALLO”, ADDIO

Non amiamo celebrare i decessi, soprattutto se appena avvenuti. Temiamo la retorica che già vive nei pensieri dopo la mancanza percepita. Del resto, il tempo che passa è scandito anche dalle dipartite delle celebrità, e questo tocca cuori e ricordi. Con Angela Lansbury facciamo un’eccezione, perché la sua fama è passata attraverso le fessure delle porte, in un periodo storico durante il quale le televisioni di giorno erano sempre accese. E poi, chi può dire di non aver mai visto almeno un episodio de “La Signora in Giallo”? Anche per caso? Le vicende di Jessica Fletcher, la scrittrice capace di risolvere omicidi complessi, ha abitato i palinsesti di casa nostra per trent’anni, tutti i giorni dell’anno. Sky, nell’Aprile del 2017, le aveva dedicato un intero canale, trasmettendo le sue avventure ventiquattro ore al giorno, durante l’intera settimana.

Angela Lansbury, era convincente nei panni della detective improvvisata, a cominciare dall’abbigliamento: tailleur di taglio classico e borsetta in tinta, con dentro tutto l’occorrente per indagare. C’era però dell’altro: i tempi recitativi erano perfetti, le pause, i momenti di riflessione scanditi da uno sguardo sbalordito. Nonostante la sceneggiatura delle puntate fosse curata a dovere, Angela vinceva soprattutto nei campi stretti, quando la macchina da presa indugiava su di lei.

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NASCE EUGENIO MONTALE

La nascita di Eugenio Montale ci offre l’opportunità di incontrare due fotografi che l’hanno ritratto: Ferdinando Scianna e Ugo Mulas. Emergono due sensibilità differenti, due diversi modi d’agire, cui corrispondono altrettanti approcci al cospetto di un poeta famoso e significativo. Di mezzo, come vedremo, emerge il rapporto tra parole scritta e fotografia, ma già prima del click prendono corpo forze vitali riscontrabili poi nel risultato ottenuto. Scianna, come racconta in Visti & Scritti, incontra Montale in uno studio televisivo: «Fumava una sigaretta dietro l’altra […]. Lo sentivo barricato in una specie di silenzio interiore. Cercavo di coglierlo, questo silenzio, e mi pareva di non riuscire. Diceva frasi nitide e brevi. Più che il silenzio, mi parve di capire molto tempo dopo, emanava una certa sensazione di densità. Sì, densità. “Codesto solo oggi possiamo dirti: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo” (Da “Non chiederci la parola che squadri da ogni lato”, 1923). Questa frase lucida e disperata continua ad accompagnarmi come la migliore, se non la sola, definizione del tempo nel quale c’è toccato di vivere». Ecco che emerge il rapporto tra parole scritte e fotografia, che Scianna legge tra silenzio e “densità”, sostantivo, quest’ultimo, che probabilmente nasce proprio nell’atto di scattare la fotografia.

Ugo Mulas negli anni ‘60 decide di dedicare, attraverso la fotografia, un gesto d’amore a un’altra arte: la poesia. L’idea era quella d’illustrare un’opera di Eugenio Montale: Ossi di Seppia. Ne nasce un lavoro che diventa un connubio tra le due arti, un vortice d’immagini e parole; dove l’astrazione del verbo trova la giusta rappresentazione nelle forme dell’immagine fotografica.

Mulas per un paio d’anni, dal 1962 al 1965, si era recato a Monterosso, paese in cui il poeta aveva trascorso parte della vita, così aveva cercato, e trovato, i luoghi dei suoi versi. Il fotografo ci aveva già abituato a un atteggiamento del genere, perché non si limitava a documentare, ma voleva indagare, conoscere, comprendere. Il risultato? Si dice che il poeta, guardando le fotografie, abbia esclamato: «Come hai fatto, come hai fatto!»

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