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NASCE LA RADIO IN FM

5 gennaio 1940. Negli USA, Edwin Armstrong utilizza per la prima volta una radio funzionante in modulazione di frequenza, nota come FM. E’ il sistema oggi più usato per la diffusione delle trasmissioni radiofoniche.

La notizia sembra da poco, ma a pensarci bene la radio in FM ha migliorato il nostro ascolto dei programmi via etere. Chi scrive, ricorda ancora gli apparecchi dei nonni, a onde medie. Già la ricerca della sintonia era difficile, in più vi erano disturbi di ogni tipo. Anche la prima autoradio del padre captava onde medie, con tutti i fastidi del caso, particolarmente durante il brutto tempo, quando i temporali erano riconoscibili per via del continuo gracchiare.

Tornando a un tempo più vicino a noi, la modulazione di frequenza ha agevolato l’esplodere delle radio libere. La prima, Radio Milano Intenational, aveva dato il via alle sue trasmissioni il 10 marzo 1975, seguita dalla bolognese Radio Alice (9 febbraio 1976). Da quel momento l’Italia vede fiorire centinaia di nuove emittenti locali.
La musica trovò uno spazio maggiore in ambito giovanile. Prima del ’76, due volte la settimana (e dopo l’ora di pranzo), si poteva ascoltare “Hit Parade”, con la classifica dei dischi più venduti; mentre la sera ci si perdeva tra le note di “Supersonic”. Il resto era buio, se togliamo i pomeriggi a casa dell’amico che, beato lui, aveva comprato l’ultimo LP.
A dire il vero, Supersonic era stata in grado di anticipare la nuova era di rinnovamento. Andò in onda sul Secondo Programma della Rai la sera ininterrottamente dal 4 luglio 1971 al 16 dicembre 1977. A target giovanile, le scelte musicali includevano dischi underground italiani e stranieri. La sigla era “In the garden of Eden”, degli Iron Butterfly. A richiesta, via lettera, si poteva dedicare una puntata a qualcuno: anche questa, per i tempi, era una novità.

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RICORDANDO PINO DANIELE

Ricordare Pino Daniele (deceduto il 4 gennaio 2015) è doveroso, come cantautore e chitarrista. Lui è stato in grado fondere diversi generi musicali, il pop con il blues e il jazz, la musica italiana con quella mediorientale. Durante la carriera, è rimasto sempre un innovatore, anche perché amava contaminarsi. Nelle sue canzoni ha saputo trattare tanti temi: dal sociale all’intimo, dalla protesta all’amore.

Ricordiamo il 1979. D’estate impazzava la canzone Je So' Pazzo: un fiume in piena. C’era del nuovo, nella musica e nei testi: «Non mi date sempre ragione, Io lo so che sono un errore, Nella vita voglio vivere almeno un giorno da leone, E lo Stato questa volta non mi deve condannare, Perché so' pazzo, Je so' pazzo, E oggi voglio parlare».

Tutto tornava come un tempo, con i dischi da ascoltare insieme agli amici e quella chitarra da invidiare, per via di un virtuosismo insolito e irraggiungibile. Già, Pino Daniele ha alzato il sipario su tutta la musica, permettendo di apprezzare altri autori, musicisti come lui.
Poi ci sono le icone, i brani intramontabili: “Napule è” (da Terra mia), un canto disperato tra amore e odio per la città che lui amava tanto, alla scoperta di un’anima che nessuno vuole svelare; “Quanno chiove” (Da Nero a metà, 1980), una poesia in musica dedicata a una prostituta («Ti sento quando scendi le scale, di corsa, senza guardare. Ti vedo tutti i giorni mentre ridendo vai a lavorare. Ma poi non ridi più. E lontano se ne va, tutta la vita così. E tu ti conservi per non morire»); “A me me piace 'o blues” (A me me piace 'o blues, E tutt'e juorne aggio cantà, Pecchè so stato zitto e mo è 'o mumento 'e me sfuca').

Potrebbero essere ricordati altri brani, ma il risultato è sempre quello: una musica riconoscibile, inconfondibile, con la quale è bello abbandonarsi all’ascolto assoluto, quello da godere in poltrona e non semplicemente alle cuffie dello smartphone.

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ADDIO A FRANCOISE BORNET

Aveva 93 anni. Era la donna del famoso bacio di Doisneau, quello dell’hotel De Ville (1950). Lo riferisce il quotidiano “Le Parisien”, precisando che il suo decesso risale allo scorso 25 dicembre, mentre la Bornet si trovava a Evreux, in Normandia. La donna si è conquistata l'eternità per quell'istantanea in bianco e nero; baciava il suo compagno di allora, Jacques Corteaux, studente di recitazione come lei. Doisneau aveva incontrato la coppia per caso in un caffè. Il bacio dell’hotel De Ville è uno scatto costruito volutamente, ma nel tempo ha visto aumentare la propria fama. Si dice che sia stato venduto in 2,5 milioni di copie, sotto forma di cartolina; e in almeno mezzo milione, stampato come poster.

Nel 1992, un’altra coppia volle attribuirsi l’onore di aver posato per il bacio di Doisneau: Denise e Jean-Louis Lavergne. Entrambi si presentarono alla televisione francese, sostenendo di essere loro i protagonisti del bacio famoso. Naturalmente stavano pronunciando il falso, eppure denunciarono l’artista per averli fotografati senza permesso. Doisneau negò tutto, ma fu costretto a spiegare come la sua fotografia fosse in realtà frutto di una posa e non di uno scatto rubato. Così Françoise Bornet, dopo quarant’anni, tornò dal fotografo, dimostrando di essere lei la ragazza immortalata, facendo anche vedere la copia autografata che Doisneau le aveva donato all’epoca, la stessa che lei vendette poi nel 2005.

Dopo lo scatto la Bornet continuò a lavorare in teatro. Alla fine si sposò con l'uomo che i suoi famigliari considerano "il suo grande amore", il regista Alain Bornet.
Come dicevamo, il bacio dell’hotel De Ville resta uno scatto costruito. E’ comunque nostra opinione che non debba essere giudicato se vero o falso, ma condannato solo nel caso in cui i suoi contenuti risultino ingannevoli. La fotografia di Doisneau trasuda amore e la poesia di Parigi. I due giovani sono all’altezza. Bene così.

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GABRIELLE HÉBERT, IN VIAGGIO COL MARITO

Gabrielle Hébert nasce il 3 gennaio 1853.
Gabrielle Hébert, nata d'Uckermann, era sposata con il pittore Ernest Hébert (1817-1908) dal 1880. Lei aveva ventisette anni, lui sessantatré. Si dedicò alla fotografia nel 1888, durante il secondo mandato del marito come direttore della Villa Medici.
Le fotografie di Gabrielle Hébert sono state scattate durante i viaggi compiuti con il coniuge, in Spagna o in Italia. I suoi soggetti alternano scene di vita quotidiana, urbane o rurali, paesaggi e monumenti del patrimonio storico.
Gabrielle Hébert ha utilizzato fotocamere differenti, ma anche diverse camere oscure e tecniche per sviluppo e ritocco.

Secondo il figlio adottivo René Patris d'Uckermann, G. Hébert vedeva nel marito “un semidio, all'arte e alla vita del quale era interamente dedita”. Esaminando la sua pratica fotografica, che, sebbene sia specificatamente quella di una ricca “utente-hobbista” del XIX secolo, è possibile costruire uno spaccato importante della sua personalità.
La produzione di G. Hébert, infatti, pur concentrandosi prevalentemente su soggetti comuni, ci fornisce un’ulteriore prova della sua condizione: sia come donna, che all’interno della società. Questo non vuol dire che la sua pratica artistica fosse tipicamente femminile; tuttavia, sembra che per certi aspetti le abbia permesso di affermarsi come creatrice piuttosto che semplicemente come moglie di E. Hébert all’interno di una cerchia prevalentemente maschile di artisti riconosciuti.

G. Hébert, che non si presentava come un'artista fine a se stessa, sviluppò chiaramente un vivo interesse per la tecnica fotografica, utilizzando diverse fotocamere per valorizzare ciascuna delle loro specificità. A volte tagliava o ritagliava le sue fotografie e realizzava più stampe della stessa immagine utilizzando vari processi di viraggio. Tracce rinvenute sui negativi dimostrano che erano stati sottoposti a ricerche di carattere potenzialmente artistico. Inoltre, G. Hébert aveva molta cura delle sue fotografie, che ordinava in album, così come dei suoi negativi su vetro, che classificava e conservava in scatole etichettate.

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