“Un centesimo di secondo qui, un centesimo di secondo là... anche se li metti tutti in fila, rimangono solo un secondo, due, forse tre secondi... strappati all’eternità”.
Riprendiamo alcune sue parole: “Quello che io cercavo di mostrare era un mondo dove mi sarei sentito bene, dove le persone sarebbero state gentili, dove avrei trovato la tenerezza che speravo di ricevere”. Robert cercava un mondo dedicato a se stesso, ma non per egoismo; semplicemente perché lui aveva bisogno di quello spazio che è tra il vivere soggettivamente e vederlo fare. La sua fotografia (grande, in assoluto) brilla di una ricerca che vive in un confine dove il tempo non conta, ma solo quanto accade davanti l’obiettivo, dopo ore di attesa.
Quella linea di demarcazione spesso si sposta in periferia, ma vive anche a Parigi: tra i Bistrot, i negozi, i bambini che giocano. Robert non andava bene a scuola, preferiva in assoluto andare a pescare con lo Zio. Professionalmente, in età adulta, non si è mai legato a un lavoro stabile (Renault è stata costretta a licenziarlo per via delle assenze). Lui sentiva il richiamo dei posti che stava cercando. La sua fotografia, dolce e delicatissima, non poteva aspettare; ed era fuori, là, sul quel confine dove camminano coloro che sanno vedere l’umanità, raccontandola. Ne è nata una narrazione infinita, suggestiva, umana, che nessun altro potrà mai restituirci.
La Vita
Robert Doisneau, nasceva il 14 Aprile 1912 ,a Gentilly. Lui, poeta della fotografia francese, trascorre l’infanzia a Corréze, per via della madre ammalata di tubercolosi. Quest’ultima si mostrerà autoritaria e rappresenterà per il giovane Robert l’alter ego della propria sensibilità. Lui amava la pesca, che praticava con l’aiuto dello zio o le tante volte nelle quali marinava la scuola. Il padre, a lungo atteso a guerra finita (1918), si rivelerà una delusione. La voglia di una figura teutonica e forte venne delusa. L’infelicità, comunque, era ancora più vicina: perché la madre moriva appena un anno dopo il ritorno della famiglia a Gentilly. Robert prende ancora più le distanze dal mondo, sin dal funerale; lo immaginiamo distratto dietro al carro funebre, ma anche al cimitero, dove il padre conoscerà la sua seconda moglie. Quest’ultima si rivelerà ancor più severa e costrittiva, persino gelosa e punitiva. Il futuro fotografo scoprirà la solitudine, quel non sentirsi appartenente a niente e a nessuno, nemmeno a quella classe “piccolo borghese” che la nuova residenza stava a significare.
Quel bambino timido e goffo inizia a osservare in maniera acuta, particolarmente nelle fughe verso la periferia: segno di disobbedienza, da un lato; ma anche dell’identificazione di quel teatro che, per tutta la vita, rappresenterà il suo territorio di ricerca fotografica.
Gli studi
Nel 1925 viene ammesso, in qualità di allievo incisore - litografo presso la scuola di Etienne, unistitutodedicatoalleArtiGrafiche.Glistudi primari erano stati condotti di malavoglia e in maniera irregolare. Doisneau non riceve alcun insegnamento di fotografia, che incontrerà, per la prima volta e alla lontana, quando verrà assunto presso uno studio grafico, dove disegna alcune etichette per dei medicinali. Siamo nel 1929.
Solo frequentando gli atelier di Montparnasse Robert incontrerà la fotografia: questo nei contrasti degli “anni folli” della Parigi del tempo. Inizia così un bisogno compulsivo di fotografare, che lo porta a esplorare inconsapevolmente gli scenari visitati, anni prima, da Atget.
André Vigneau e l’avanguardia parigina
L’incontro con André Vigneau (fu il suo assistente dal 1931) fu fondamentale per Robert, come più volte ha confermato lui stesso: “... lui mi parla di un’altra filosofia, un’altra pittura, un altro cinema”. Presso lo studio dell’artista Doisneau incontrerà l’avanguardia parigina, tra cui Prévert. Sarà il servizio militare ad allontanare il nostro dallo studio di Vigneau ed al ritorno non potrà essere assunto nuovamente, per questioni economiche. Doisneau troverà lavoro nell’ufficio pubblicitario di Renault, tra il 1934 e il 1939: anni nei quali il fotografo consoliderà la propria vita sentimentale, sposando Pierrette. Ma un luogo chiuso non era per lui, che tra l’altro aveva sempre visitato le periferie anche per disobbedire, per infrangere le regole. Così, quando viene licenziato, siamo alle soglie della Seconda Guerra Mondiale.
Il dopoguerra
Gli anni 50 - 60 saranno per Doisneau quelli della consacrazione. È una Francia “fotografica” quella che i professionisti si trovavano a disposizione. A parte le varie iniziative culturali (Arlés, ad esempio), vengono sviluppati dei programmi di commesse pubbliche a vantaggio dei fotografi. Negli anni ‘80 accetterà anche di rivisitare le sue periferie; ma erano diverse da quelli di anni prima. Sarà Sabine Azéma, l’attrice da lui fotografata, a fargli scoprire la Parigi a lei prossima. Avendo sempre privilegiato il rispetto per l’uomo a scapito della tecnica, è stato definito “fotografo umanista”. Nella sua carriera, ha preso spunto da varie parti: dal costruttivismo, dal surrealismo, dal Cinema Sovietico. Con “il Bacio dell’Hotel de Ville” ha raccontato una storia eterna.
Lo stile di Robert Doisneau
In un periodo nel quale domina la “Street Photography”, parlando di Doisneau siamo costretti a prenderne le distanze. Lo stile di oggi è troppo rapido e anche i suoi contenuti non ci vengono in aiuto. Robert preferiva le attese, le scoperte, la semplicità. Lui aspettava il miracolo, come ha confessato in un’intervista rilasciata a Frank Horvat: quello che occorreva cogliere al di là della composizione o di altri aspetti tecnici. “C’è chi guarda”, viene da dire osservando le fotografie del nostro. In quasi tutte le sue immagini accade qualcosa e tanti occhi ne rafforzano il contenuto, connotandolo. Non è così nel famoso bacio (Hotel De Ville), ma lì era necessario, sin dalla committenza. Doisneau costruisce in ogni scatto la scena di un teatro, dove a fianco di un soggetto principale, altre comparse aggiungono un “coro di occhi”. L’intreccio di sguardi che ne consegue porta a una vita sospesa, immobile; a galla tra l’oggi e il domani, dove l’interpretazione dell’autore diventa verità, bella da credersi per dolcezza, ironia, semplicità.
Gli insegnamenti di Robert Doisneau
Gli insegnamenti di Robert Doisneau sono pochi, ma solidi. Al contrario di altri suoi colleghi, lui non usa solo focali corte, anzi. Molto spesso notiamo delle prospettive compresse, tipiche delle lunghe focali; ma è l’attesa a vincere, la perseveranza: l’aspettare quel miracolo suggestivo che diventerà eterno, agli occhi di tutti. C’è poi il rapporto con i poeti e gli scrittori. Con loro esplorerà Parigi di giorno e di notte. Prévert lo accompagnerà tra “rue” e “bistrot”. Lui soleva dire: “La poesia è ciò che sogniamo, ciò che immaginiamo, ciò che desideriamo e ciò che si compie, spesso”. Con Robert Giraud, Doisneau conoscerà la notte, quella da scovare con tenacia. Ecco cosa dice lo scrittore: “Una luce si spegne, un’altra si accende e la sostituisce”. “La notte a volte ha anche i suoi orari di chiusura; questo è grave”. “Il tutto è da sfruttare al meglio, poi si vedrà”. Doisneau non ha sfruttato la sua vita, ma ne ha raccontato lo sguardo: quello che cercava la tenerezza dei cuori gentili. Forse l’ha trovata nei bambini, corpus importante del suo lavoro fotografico; quelli da accomunare alla sua infanzia, trascorsa ad aspettare un miracolo mai giunto a destinazione.
Buona fotografia a tutti
I GRANDI AUTORI
Robert Doisneau
Grande maestro della fotografia, Doisneau è il rappresentante più famoso della cosiddetta "fotografia umanista", ossia quel tipo di sensibilità visiva che pone l'accento sulla condizione disagiata dell'uomo nella società. Nasce il 14 aprile del 1912 a Gentilly, un sobborgo di Parigi che segnerà profondamente la sua estetica e il suo modo di guardare le cose. Diplomatosi incisore litografo alla scuola di Estienne decide di abbandonare quella strada per gettarsi nella realtà viva e cruda delle periferie, dimensione che all'epoca nessuno considerava. Sceglie poi di utilizzare un mezzo d'espressione al tempo ancora guardato con un certo sospetto: la fotografia.
Di fronte ad un quadro simile, in cui nella cultura ufficiale dominava l'ostilità e l'incomprensione per questo genere di produzione artistica, Doisneau tira diritto, spinto dalla sua voglia di guardare le cose da un punto di vista non convenzionale e profondamente convinto del valore documentale e artistico dello scatto. Negli anni trenta sceglie dunque definitivamente che quella sarà la sua strada. Lo sforzo maggiore è quello di donare dignità e valore alla fotografia, cercando di svincolarla da una considerazione meramente "professionale", occupandosi in primo luogo di soggetti che non interessavano a nessuno e che non avevano nessun valore commerciale. I suoi committenti di allora, infatti, si chiamavano Renault, Vogue, ecc. ma sono ben presto abbandonati in favore dell'Agenzia Rapho. La collaborazione con l'agenzia comincia nel 1946 e durerà tutta la vita, per quasi cinquant'anni, fino alla fine della sua vita. Muore a Montrouge, il 1 Aprile 1994.
Soggetto privilegiato del fotografo: Parigi. Produce una serie di scatti innovativi, geniali e dominati da una forte carica umana: sono le immagini che lo hanno reso celebre.
Quello che colpisce i fruitori e gli operatori del settore è che non si tratta di una Parigi convenzionale, quella che domina negli ambienti della pubblicità, della moda, dei giornali o del cinema ma è una Parigi di piccola gente, di arie di fisarmonica, di grandi e bambini, i cui sguardi trasudano umanità e tenerezza. Tra le produzioni di questo periodo si possono citare le celebri "Banlieues" tra le quali spicca la storica "Banlieue la nuit" del 1947, a quelle dedicate ai bambini: "Le dent" (1956), "Les Frères" (1934), "Les petits enfants au lait" (1932). Immancabili i celebri "baci" da "Le baiser de l'hôtel de ville" a "Baiser blottot" e al "Baiser valsé" anch'essi datati 1950.
Inoltre, il suo modo di lavorare poco convenzionale e fuori dagli schemi della "professionalità" generalmente accettata, si dimostra anche nel suo stile. La sua carica interiore possiamo capirla ascoltando direttamente le sue parole: "un fotografo animato dal solo bisogno di registrare quello che lo circonda non aspira a ottenere risultati economici e non si pone i limiti di tempo che ogni produzione professionale comporta". Per lui la fotografia è prima di tutto un bisogno privato, un "desiderio di registrare", il soddisfacimento di una necessità che toglie al suo lavoro ogni elemento di calcolo e ogni ricerca di perfezionismo sterile. Le foto circolano prima tra le persone a lui vicine e vengono utilizzate dagli amici qualora ne abbiano bisogno.
Parlando ancora del suo lavoro e dell'impulso che lo spinge a creare, in un'intervista si legge: "Vi spiego come mi prende la voglia di fare una fotografia. Spesso è la continuazione di un sogno. Mi sveglio un mattino con una straordinaria voglia di vedere, di vivere. Allora devo andare. Ma non troppo lontano, perché se si lascia passare del tempo l'entusiasmo, il bisogno, la voglia di fare svaniscono. Non credo che si possa "vedere" intensamente più di due ore al giorno". Il tempo, il suo dilatarsi e compenetrarsi con il suo essere fotografo è forse insieme all'istinto, una delle note dominanti del suo lavoro. L'artista preferiva essere definito poeticamente come un "pescatore di immagini" e sentiva la necessità di immergersi completamente nella realtà. Come in un suo tragico scatto, stavolta malriuscito, il grande fotografo scompare ultraottantenne nel 1994, avendo coronato il suo sogno, insieme ad altri eminenti colleghi, di dare un valore e una dignità alla fotografia che prima non aveva.