Skip to main content
- stay tuned -
Non ci sono eventi futuri

Roberto Nencini

"Ho avuto la fortuna di vivere in un ambiente particolare. La mia ex moglie aveva studiato arte, mio padre era scultore, pittore e insegnante. Ogni volta che uscivo con la fotocamera, lui era la prima persona alla quale facevo vedere le mie immagini, e ne era contento."
ALESSANDRO DOBICI
| Mosè Franchi | GRANDI AUTORI

IL SILENZIO INTERIORE

Abbiamo incontrato Roberto Nencini di persona, in occasione del cinquantenario del Circolo Apuano, quando presentava le sue immagini. Ne siamo rimasti sorpresi, perché le fotografie proiettate permettevano di godere del silenzio, concetto che abbiamo espresso anche in loco. Attenzione, non volevamo intendere una condizione di “non rumore”, ma un’area della nostra mente dove il tempo riusciva a galleggiare, concedendoci pensieri e riflessioni: gli stessi che ci avrebbero presi per mano portandoci altrove, magari di fronte a quell’ultimo chilometro dove noi, in completa solitudine, eravamo in grado di terminare il pellegrinaggio dentro l’immagine, riconoscendo contenuti e significati.

Come spiega Gigliola Foschi nel suo saggio, “Silenzio” vuol dire anche ricchezza, opportunità. Nell’era dei “selfie”, delle immagini roboanti e compulsive, ci viene offerta la forza di osservare con cura; un dono “umile” in grado di svelarci quel mondo misterioso che vive all’interno di certe fotografie e, spesso, dentro la realtà che affrontiamo tutti i giorni.

C’è però un silenzio anche nella vita di Roberto Nencini: quello che gli ha permesso di ascoltare i consigli, per imparare; lo stesso con il quale è stato in grado di dividere la sua fotografia tra professionale e personale, riuscendo a divertirsi.

Riflette di continuo, Roberto; anche oggi mentre viaggia in motocicletta vicino casa. A muoverlo è una curiosità giovanile, mai spenta; anch’essa da ascoltare alla bisogna, quando il silenzio diventa intimo, personale, con il solo respiro a dettare il

tempo dell’idea fotografica.

Un silenzio interiore che arricchisce. Bene così.

D] Roberto, quando hai iniziato a fotografare e perché?

R] Ho iniziato tra le mura domestiche. Mio padre era appassionato e in casa si parlava spesso di fotografia. Lui scattava le foto ricordo, ma aveva una buona visione. Io gli rubavo la fotocamera per ritrarre gli amici, finché si è acceso in me il fuoco sacro: la voglia di documentare, di raccontarmi. A metà anni ’70 ho iniziato a fare fotografia in maniera seria, occupandomi del territorio, dei borghi. Io abito a Cecina, in provincia di Livorno, e a quel tempo le porte delle case erano sempre aperte; io entravo, facendomi offrire il caffè. Poi è arrivato lo studio, enorme per il tempo: 200 metri quadri, con galleria, biblioteca, sala posa, Camera Oscura, area vendita e spazio per gli amici, con tanto di divanetto. Era un punto di riferimento per la città. Nella vita, ho sempre lavorato divertendomi; ma non ho mai mescolato il fuoco sacro con la professione. Affrontavo la committenza per profitto e accontentavo la passione uscendo dallo studio, per portare avanti la “mia” fotografia. Il lavoro era estraneo a quanto mi batteva dentro. Ecco sì, mi pagavo i viaggi: un’altra parte integrante della mia vita.

D] Prima mi parlavi di scrittura …

R] Sì, quando mi dicevi che scrivi le interviste. Ebbene, al Maxxi di Roma ho visto la mostra di Paolo Pellegrin. Lui oltre alle fotografie (stupende) aveva esposto gli appunti di viaggio. Quei fogli erano meravigliosi. Chi sa scrivere è un grande.

D] La tua è stata passione per la fotografia?

R] Sì, un fuoco sacro. La sentivo nello stomaco, come un fremito di farfalle. La fotografia era l’unico modo che mi consentisse di raccontarmi; e mi ha salvato, perché ho vissuto in tranquillità.

D] La tranquillità prevede anche dei fattori ambientali …

R] Ho avuto la fortuna di vivere in un ambiente particolare. La mia ex moglie aveva studiato arte, mio padre era scultore, pittore e insegnante. Ogni volta che uscivo con la fotocamera, lui era la prima persona alla quale facevo vedere le mie immagini, e ne era contento.

D] Devi la tua crescita ai consigli di chi ti stava vicino, quindi?

R] Beh, non solo. La fotografia ha iniziato a starmi stretta e l’unico modo per uscire da quello stallo era partecipare a dei concorsi. Mi sono iscritto a un circolo che distava cinquanta chilometri da casa mia. L’ho seguito per anni e lì ho incontrato il mio mentore, dal quale ho ricevuto l’aiuto per costruire la “mia” fotografia. Quando gli mostravo le immagini, si apriva un mondo. Lui si chiamava Silvio Basotti, una di quelle persone che, se le incontri, possono generare una svolta nella tua vita.

D] Oltre quello che mi hai già detto, come hai curato la tua formazione?

R] Bella domanda. Io sono autodidatta: non ho mai frequentato dei corsi. Tutto è iniziato con lo studio dei grandi autori sulle riviste dell’epoca, quelle che pubblicavano le loro fotografie. Questo, l’ambiente familiare e il circolo hanno costituito il mio habitat formativo. Non sono mancati i workshop, dove ho appreso le metodiche per affrontare i ritratti in studio.

D] Mi hai parlato di riviste, immagino però che tu abbia anche consultato libri …

R] Se guardi la mia libreria, diventi pazzo. Troverai: Salgado, Scianna, Saudek e tanti altri.

D] Hai quindi avuto degli elementi ispiratori, dei fotografi che ti abbiano influenzato?

R] Sì, certo: Raghu Rai è tra questi. Aggiungerei: Ernst Haas, William Klein, Sebastião Salgado Josef Koudelka e anche Robert Frank.

D] Dalle fotografie che vedo, direi che nella tua vita c’è anche il viaggio …

R] Quella del viaggio è una passione che ho vissuto da sempre, peraltro con un amico (Federico, di Bologna) col quale ho affrontato il mondo più di venti volte. Partivamo per fotografare e tutto nasceva da lì, tappe e spostamenti compresi. Obbedivamo ai bisogni essenziali (mangiare, dormire) solo quando era necessario. Compravamo il volo e basta. Ricordo gli inizi con la Birmania: siamo partiti con niente, per una scoperta che è diventata quotidiana. Là sono stato anche arrestato: un’esperienza anche quella.

D] Scattavi in diapositiva, dico male?

R] Unicamente in diapositiva, con un po’ di B/N.

D] Qualche rimpianto per la pellicola?

R] Nessuno. La slide ha rappresentato un momento della mia fotografia. Il digitale ti offre molto di più. Tieni conto che ai tempi io scattavo a 64 ASA. Certo, usavo delle ottiche luminose, ma quella sensibilità risultava davvero modesta.

D] Fotograficamente, come ti definiresti?

R] Bella domanda anche questa: non so come rispondere. Vorrei dire: fotografo di viaggio. Lì c’è un po’ tutto: ritratto, paesaggio, reportage e molto altro; il sunto di tutta la fotografia, perché affronti interni, esterni, ambienti e via dicendo. Tieni comunque conto che le etichette, o le definizioni, tendono a stringere. Io sono un fotografo: credo che basti.

D] Qual è, a tuo avviso, la qualità più importante, e necessaria, per un fotografo come te?

R] La curiosità: un motore pazzesco. Sono curioso tuttora, fa parte di me.

D] Con i tuoi viaggi hai percorso tutto il mondo …

R] Ho toccato diverse mete, ma non è importante mettere una “tacca” sul diario personale. Meglio comprendere come certe parti del pianeta mi abbiano incuriosito. Oggi, poi, tutto è cambiato: ci sono dei luoghi che non puoi più frequentare, il Mali ad esempio. Un tempo il mondo era maggiormente accogliente.

D] Bianco e nero o colore?

R] Altra domanda importante. Mi sono mosso su due ambiti: ho iniziato in B/N, poi ho fatto mio anche il colore, più complicato e difficile; l’ambito che oggi mi appassiona maggiormente. Del resto, col digitale tutto è cambiato; e la differenza la si percepisce in maniera diversa (si scatta sempre a colori). Diciamo che vivo a colori, anche se faccio pure il B/N.

D] C’è, tra le tue, una fotografia che ami particolarmente? Diciamo la preferita?

R] Direi un paio. Ricordo quella di un bambino in Portogallo. Si chiamava Diego e con lui è nata una simbiosi spontanea e reciproca. Anche in Birmania mi è capitata un’esperienza simile. Sempre un bambino, in un deposito di riso, si è messo in posa senza che io gli dessi dei suggerimenti. Ne è nata una fotografia che amo tutt’oggi.

D] C’è un obiettivo che usi preferenzialmente?

R] Sì, il 24 mm. Il mondo dice 28, ma io ho occhi da 24. Con quella lente mi scopro più agile e pronto. Uso anche il 50 mm., col quale riesco a comporre razionalmente. Ovvio che per i ritratti la mia scelta cada sull’85 mm.

D] Dopo tanti anni di carriera, c’è un progetto rimasto indietro e che vorresti portare a termine?

R] A livello professionale non sono mai stato un free lance. Diciamo che è un’esperienza che non ho provato e che forse mi manca.

D] Curi personalmente il ritocco?

R] Sì, faccio tutto io.

D] La tua risulta essere una post produzione invasiva?

R] Non nascondiamoci dietro un dito: il mio ritocco è intenso. L’importante è che non ne risulti una fotografia pasticciata. Se affermassi che intervengo poco, direi una bugia.

D] Ti sei definito come fotografo di viaggi. Dopo tanto peregrinare, dove torneresti?

R] Generalmente non amo tornare dove sono già stato. Lo farei solo se in quel luogo non sono riuscito a raggiungere ciò che desideravo. Alla fine, mi piacerebbe andare dove non mi sono mai recato. Oggi, mosso dalla curiosità di sempre, viaggio vicino casa. Ho scoperto la motocicletta, con la quale sto osservando un’Italia che non vedevo.

D] Potessi dedicarti un augurio fotografico, cosa ti diresti?

R] Vorrei realizzare un libro, uno importante; che riveli il progetto di una vita, magari dedicato a mia figlia. Lasciamo poco di noi, troppo poco.



Buona fotografia a tutti

Roberto Nencini

Note biografiche

Alessandro Dobici nasce a Roma il 14 dicembre 1970.

Ha otto anni quando, d’estate, sua madre gli chiede di ritrarla in quello che è il luogo delle loro vacanze da sempre, Capodarco di Fermo, nelle Marche. Alessandro prende in mano la macchina fotografica per la prima volta, ed è subito attrazione. Dieci anni dopo, per il suo diciottesimo compleanno, quando riceve in regalo dai due fratelli maggiori un sassofono elettronico, non ha esitazioni: lo cambia con una reflex, una Yashica fx3 – 2000. Con quella, comincia a fotografare tutte le volte che può, prediligendo alle persone paesaggi e oggetti. «All’inizio fotografavo solo paesaggi perché non volevo interagire con le persone. C’ero solo io, il mio obiettivo, nessuno poteva vedere ciò che guardavo. Poi col tempo ho capito che fare fotografie poteva essere il più importante, gratificante e bel modo di esprimere me stesso e di conoscere gli altri».

Insieme alla fotografia coltiva un’altra passione, il volo. Studia, si diploma in costruzioni aeronautiche, ma poi, come sempre, arriva il momento di scegliere. Decide che vivrà di fotografia e trova lavoro come assistente in un laboratorio di sviluppo e stampa, così riesce, fuori orario, a stampare anche le sue immagini, nello sforzo continuo di migliorare. Nel 1993, grazie a uno dei fratelli, ottiene un incontro con il noto fotografo Giovanni Cozzi e diventa il suo assistente. Lascia il laboratorio di cui nel frattempo era divenuto responsabile. È nello studio di Cozzi che impara che cos’è e come si gestisce un set fotografico. Sei mesi dopo, Alessandro inizia a scattare book e a fare progetti di reportage. Un anno più tardi, con l’aiuto del padre, rileva una quota dello studio di Cozzi.

Nel 1994 va a Cuba come assistente per un servizio di moda. Quando non è impegnato sul set, gira l’isola e realizza un reportage. Nel 1995 è in Islanda, ancora per un servizio di moda. S’innamora del Paese dove tornerà, negli anni seguenti, altre cinque volte. Molte delle immagini del progetto espositivo sono state riprese in questa terra lontana. Dopo tre anni nello studio di Giovanni Cozzi si sente maturo e alla fine del 1997 decide di rendersi indipendente in uno spazio proprio. La prima pubblicazione importante arriva nel 1996 con il settimanale Max: è un servizio fotografico ad Alessandro Gassman. Da allora, Dobici s’impone come ritrattista, amato dai più noti personaggi del mondo dello spettacolo, della cultura e della politica. I suoi ritratti sono pubblicati su prestigiose testate, tra cui Amica, King, L’Espresso, Harperʼs Barzaar, Max. «Mi interessa capire cosa c’è dietro e cosa hanno da dire le persone che incontro e fotografo. Il ritratto è un’occasione unica di poter rendere pubblico il mio punto di vista. E quando ritraggo un personaggio, cerco di raccontare la mia percezione sulla sua essenza, prima che sulla sua immagine». Nel 1996 realizza le fotografie di scena del film di Bigas Luna Bambola. Trovandosi sul set, la rivista Ciak lo invita a realizzare un servizio di ritratti al regista che rimane colpito dal lavoro di Dobici e lo vuole ancora come fotografo di scena nei film “La Cameriera del Titanic”, con Aitana Sanchez Gijon, e “Volaverunt”, con Penelope Cruz.

Appassionato anche di musica, decide nel 1996 di mettersi in contatto con Claudio Baglioni. Gli invia il suo book, senza sperare in una risposta. Invece, Baglioni lo chiama e lo incontra. Dobici torna in studio senza il ritratto del cantante, ma con qualcosa di molto più importante: la promessa di realizzare un libro. Diventa così il fotografo ufficiale di Claudio Baglioni. Lo segue durante i tantissimi concerti e i progetti speciali condivisi che costruiscono e cementano una collaborazione e un’amicizia che dura ancora oggi, da più di ventʼanni. Nel 1998 esce “C’era un cavaliere in bianco e nero”, pubblicato da Mondadori con oltre 250 fotografie di Baglioni tra ritratti e fotografie riprese durante i tour del cantante. Dobici firma anche la direzione creativa del volume insieme a Guido Tognetti. Nel 2001 fonda a Roma la Contents, uno spazio polifunzionale di 500 mq. La sua attività professionale s’intensifica, affermandosi anche nel campo della pubblicità, contribuendo al successo di importanti campagne per Fendi, Belstaff, Reebok, Hoya, Tim, Alice. Dobici continua a viaggiare e torna a Cuba nel 2002 e nel 2004 per realizzare le campagne pubblicitarie di Valtur. Essendo responsabile dell’immagine dell’azienda a livello mondiale, gira in quegli anni tutto il mondo. Nel 2002 viene chiamato da David Zard, uno dei più importanti produttori musicali italiani, per curare l’immagine del musical Notre Dame de Paris. Replica l’esperienza nel 2013 con Romeo e Giulietta. Dal 2004 al 2006 insegna fotografia alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università La Sapienza di Roma. La mostra “Alessandro Dobici, vent’anni di fotografia” è stata esposta a LʼAvana, Cuba, presso lʼInstituto Cubano de Amistad con los Pueblos dal 3 al 30 giugno 2017. Nel 2018 il Chiostro del Bramante a Roma e nel 2019 il Real Albergo dei Poveri a Palermo, e la Chiesa di San Calogero a Nicosia hanno ospitato le sue opere. Nel 2018 la RAI realizza un documentario biografico sulla sua vita e il suo lavoro. Nel 2019 viene trasmesso in prima serata su RAI5.

Like what you see?

Hit the buttons below to follow us, you won't regret it...