“Non mi sono mai piaciute le “Barbie” e neanche le donne troppo perfette, anche se sarebbero state più facili da fotografare.”
Dalla dolce vita agli imponenti lavori di ricerca personale passando per trent’anni di grande fotografia al servizio della moda. Gian Paolo Barbieri non è solo un maestro dell’immagine è l’arteficie di un modo di intendere e immaginare la bellezza femminile.
Lo studio è grande, esotico, elegante. Di fronte a noi Giampaolo Barbieri, il fotografo che abbiamo sempre ammirato per le immagini che da sempre ci propone. Siamo emozionati. Non è facile incontrare tanta raffinatezza e quel garbo “colto” che è frutto della conoscenza e della ricerca incessante che porta all’autorevolezza, al senso delle cose. In un lato dello studio vediamo le fotografie di una mostra. Riconosciamo Monica Bellucci e poi donne affascinanti, inarrivabili. In una parola, seducenti. Così ci accorgiamo che le abbiamo sempre sognate per come Gian Paolo Barbieri ce le ha proposte. Molti dicono che le donne di Barbieri siano più “personaggi” che belle, e siamo d’accordo. Altri le accomunano, per stile, a Cecil Beaton, ma qui dissentiamo un poco. Di Barbieri non colpisce la sola scenografia, bensì la sua capacità di trasportarci in un labirinto complesso di suggestioni dove non abita né l’ambiguità di Newton, e nemmeno il “potere” di Avedon. In quel luogo prende vita una magia antica, la fotografia vera. Qual è stato il tuo approccio alla fotografia? Ci sarebbe da scrivere un romanzo, anche perché devo andare indietro ai tempi dei compagni di scuola. Ricordo quelli con i quali legavo di più, due ragazze e un ragazzo: con loro organizzavamo delle riunioni culturali. Amavamo molto il cinema e si parodiava la lirica. L’appartamento della mia amica, con quattro sedie, diventava d’incanto un teatro, anche se ci trovavamo in camera da letto. Lei possedeva una fotocamera e con quella ho iniziato a fotografare, documentando le rap- presentazioni che organizzavamo. Il cinema è quello che ritroviamo in tante tue immagini... Per me rappresentava qualcosa di sacro: impazzivo per la bellezza che mi ispirava sin dallo schermo bianco. Lì è nata la mia passione. Il “noir” degli anni ’40 mi ha restituito tantissimo: per luci e composizione. Il neorealismo era un’altra cosa, maggiormente immediato, forse più artigianale. La Terra Trema (Luchino Visconti, 1948 ndr.) arrivò a scioccarmi; poi giunse Pasolini, che mi diede il “La”. Un’ispirazione forte... Quando scattavo un ritratto alle amiche avevo in mente le cartoline delle attrici di Hollywood e mi arrangiavo come potevo. Costruivo di tutto: una lampadina in un tubo della stufa diventava un illuminatore da studio. Dopo cosa è successo? Lavoravo con mio padre con alterne fortune- Un giorno gli chiesi di poter andare a Cinecittà. Quella era la mia vita, nonostante avessi anche trovato il tempo per terminare gli studi. Pensai a un rifiuto, ma non fu così: “Sta a te scegliere”, mi rispose. Hai vissuto nella Roma della Dolce Vita? Ho vissuto a Roma un anno, lavorando anche nel cinema. Abitavo in una pensione e il periodo è quello che tu dici. Andavo spesso alle feste, nei salotti buoni, dove c’era sempre un angolo buffet verso il quale mi dirigevo quando non c’era nessuno. Un giorno mi avvicinò un signore che mi chiese: “Come ti chiami?”. “Barbieri?”. Poi continuò: “Conosco la tua ditta, sono cliente”. Incontrai nuovamente quella persona a casa di un conte, un nobile che possedeva una galleria d’arte “Roma non fa per te”, mi disse. E poi aggiunse: “Fammi vedere le tue foto”. “Io scatto per mangiare”, rispo- si, ma lui insistette. Voleva che gli mostrassi le mie immagini. Io obbedii e lui, dopo uno sguardo attento, suggerì: “Tu hai una grande sensibilità, sei tagliato per la moda”. Eravamo negli anni ’60 e allora in Italia c’erano solo le sartorie. È stato il tuo ingresso nella moda? In un certo senso, sì. Quella persona - si chiamava Gustave Zumsteg - mi disse: “Se torni a Milano, potrò darti una mano”. Così feci e poco tempo dopo ricevetti una lettera: mi proponeva di fare l’assistente di Tom Kublin a Parigi. Mi presentai vestito come un lord, il che mi fece sentire subito inadeguato. “Non presentarti così in studio”, disse il fotografo, aggiungendo: “Se funzioni, bene. In caso contrario te ne torni a Milano”. Rimasi col maestro venti giorni, i più duri della mia vita, ma lui fu soddisfatto del mio lavoro, affermando anche che non aveva mai avuto un’assistente come me. Mi diede persino il permesso di scattare un rullino a una modella. Un periodo di apprendimento intenso, direi... Nel frattempo, a Milano, io avevo aperto uno studio, organizzato in un abbaino. Essendo autodidatta, studiavo la luce dei maestri della pittura. Poi mi cimentavo con sorgenti luminose improvvisate: candele, lampadine, abatjour. Ho iniziato con i ritratti che proponevo alle amiche e alle signore bene. Il locale era angusto, arredato alla parigina. Invitavo le clienti il pomeriggio, perché speravo non avessero bisogno del bagno. Ricordo che stampavo in ginocchio. Gli inizi sono realmente da romanzo, quando hai avuto la consapevolezza di avercela fatta? Lo spirito col quale ho affrontato la fotografia è stato sempre quello degli esordi. Un giorno mi dico no: “Se vieni negli Usa guadagni tantissimo”. “Chi mi conosce là?”, domando. “Da quelle parti sei un idolo”, rispondono. Perché hai rifiutato gli Usa? Io sono una persona intima, privata e poi masticavo poco l’inglese. Dell’America non mi piaceva lo sperpero, l’eccesso, il “troppo”. oggi sarebbe diverso, l’esperienza accumulata mi aiuterebbe. cos’è per te la moda? Qual è il suo lato brutto? e la parte migliore? Una sorta d’indicatore. Con esso puoi capire anche il comportamento umano, soprattutto quello dell’uni- verso femminile. La parte brutta della moda sta nel sistema, soprattutto oggi. Non si collabora più artigianalmente perché è tutto un gioco di potere. Quando è nata la moda italiana si discuteva su come interpretare le cose. I primi stilisti hanno fatto grandi cose, restituendo lustro alla nostra nazione. Io spero e credo di aver fatto la mia parte. La parte bella è la creatività, soprattutto per coloro che la sentono propria. Arriva la modella, cominciano a truccarla e si va a creare. che tipo di donna emerge dalle tue immagini? Quella che preferisco. Ho sempre amato le donne con personalità. Se avevano un difetto, per me rappresentava un pregio. La Callas, ad esempio, ai miei occhi era meravigliosa. Forse perché ho sempre dato importanza a collo e mani. Il naso, poi, le restituiva aristocrazia. Non mi sono mai piaciute le “Barbie” e neanche le donne troppo perfette, anche se sarebbero state più facili da fotografare. La donna “più donna” che hai fotografato? Di sicuro Monica Bellucci. e quella con più classe? Audrey Hepburn e poi Veruschka. Nel mondo femmi- nile, comunque, tutto è cambiato. oggi la donna ha meno classe e le modelle sono finte. Hai molti ricordi legati al mondo femminile... Beh, sì. Audrey Hepburn l’ho vestita io, ed è diventata un’icona. Abbiamo lavorato insieme nell’atelier di Valentino. “Ho portato le pantofole”, disse, “per non sporcare il fondale”. Per convincere Sofia Loren a met- tersi il parrucchino mi sono messo in ginocchio. Con lei stavo molto attento alle luci, per via degli zigomi. Monica Bellucci la volli svestita. “Mi piacerebbe ritrarla nuda”, affermai. “No”, rispose lei, poi dopo due scatti si mise a ridere. Ricordo che in un’intervista a seguito del mio servizio dichiarò: “La nudità è qualcosa di così forte e puro che mette paura”. Quelle donne, comunque, mi hanno colpito per la loro disponibilità e professionalità. Hai ritratto la loro bellezza o si è trattato di erotismo? Non saprei, di mezzo c’era comunque la classe, tanta. Bellezza ed erotismo sono di fatto due aspetti diversi da interpretare. La prima non è che la promessa della felicità: lo diceva Baudelaire parafrasando Stendhal. La bellezza trae origine dalla cultura: laddove esiste, dicevano i greci, nasce la ragione. L’erotismo non è altro che il lusso della sessualità: tutto lì. Quali sono i soggetti più difficili da fotografare? Sicuramente i politici, poi le star odierne della televisione. È una questione di “spessore”, di personalità. Ciò che “buca” la pellicola viene da dentro non dall’aspetto esteriore. Parliamo poco dell’aspetto tecnico delle tue immagini, perché? Nasco autodidatta, ecco tutto. Ho tanta camera oscura alle spalle, ma è sempre stato l’istinto a guidarmi nelle sedute di scatto. Le cose, soprattutto quelle fotografiche, debbono essere immediate; in caso contrario, rappresentano il nulla. È pur vero che tu non hai bisogno della tecnologia: digitale o analogica che sia... Io ho sempre pensato che la camera oscura fosse necessaria per la maturazione di un fotografo, per questo ho trascorso otto anni al suo interno. Il digitale lo trovo più semplice, maggiormente facilitante. Gli attribuisco però la responsabilità di averci introdotto nell’era del “silicone”, della finzione, forse della stessa volgarità. Tutto è troppo perfetto, quasi di gomma. Forse lo abbiamo già detto, l’eleganza sta anche nell’imperfezione. Sei ricorso spesso ai grandi formati... Si, persino in Madagascar o a Tahiti. Peraltro scattare con pellicola in lastra 10x12 ai tropici non è certo facile, i cambiamenti atmosferici sono repentini si passa in un attimo dal sole alla pioggia. La fidata Linhof comunque è sempre in cassaforte, pronta per l’uso: magari con quella Polaroid T55 (introvabile oggi, ndr.) che ti offriva un positivo, ma anche un negativo stampabile, caratterizzato da una qualità assoluta. Banco ottico vuol dire tanta attenzione alla costruzione dello scatto? Ho sempre costruito l’immagine prima con le idee. Amavo molto le modelle con le quali costruivo i servizi e loro capivano ciò che desideravo. Dopo i primi due rulli, la bellezza si sprigionava dall’anima ed emergeva la seduzione. La foto era bella quando riusciva a sedurre. A un certo punto abbandoni la moda: perché? È stato un momento particolare. Vogue, dopo trent’an- ni di collaborazione, decide di prendere altre direzioni. Io ho fatto qualcosa per Elle e Amica e ho realizzato pubblicità. Un giorno mi sono detto: “Io sono un fotografo; ho lavorato tanto nella moda, ma posso fare altro”. Anche per queste ragioni è nato Madagascar, un lavoro per il quale ho studiato, ricercato, analizzato numeri. Questo fino a diventare padrone della materia. Il tutto è durato più di un anno. Dopo tanti anni di carriera, c’è un progetto che vorresti portare a termine? Ho realizzato tre libri costruiti all’estero, vorrei dedicarmi a un progetto italiano, legato alla Sicilia. Ho cercato chi potesse aiutarmi, ma tutto è stato vano. Del resto, quanto sono riuscito a fare, nella vita, l’ho pagato da solo, compresi i tre volumi che ti dicevo. Progetti ne ho comunque tanti, com’è giusto che sia. Gli anni passano e le energie vengono meno; io ho il mio studio, che è diventato un po’ il mio hobby. Qui nascono tante cose. Potessi farti un augurio da solo, cosa diresti? Vorrei scattare un bel servizio di moda da pubblicare sulle pagine di una rivista importante.Buona fotografia a tutti
I GRANDI AUTORI
Gian Paolo Barbieri
Gian Paolo Barbieri nasce in via Mazzini, nel centro di Milano, da una famiglia di grossisti di tessuti dove, proprio nel grande magazzino del padre, acquisisce le prime competenze utili per la fotografia di moda. Muove subito i primi passi nell’ambito teatrale diventando attore, operatore e costumista insieme al “Il Trio” , gruppo teatrale formato con due suoi amici, nel rifacimento di alcune parti di famosi film come La via del Tabacco, La Vita di Toulouse Lautrec e Viale del Tramonto. In seguito, gli viene affidata una piccola parte non parlata in ”Medea” di Luchino Visconti, con Sara Ferrati e Memo Benassi.
Il cinema noir americano costituisce una base importante per lui, cercando di capire come le attrici potessero risultare così belle illuminate da una luce tutta particolare che le rendeva ancora più affascinanti. Innumerevoli gli esperimenti con lampadine infilate nei tubi della stufa della cantina, da autodidatta, non avendo frequentato nessuna scuola di fotografia. Il cinema gli diede il senso del movimento e l’occasione di portare la moda italiana, nata su fondo bianco in pedana, in esterno, dandole un’anima diversa. Con l’occasione di trasferirsi a Roma, e grazie alle prime fotografie scattate in puro clima “Dolce vita”, Barbieri accetta l’offerta di lavorare a Parigi poiché definito talentuoso nella fotografia di moda. Inizia così la sua carriera come assistente al fotografo di “Harper’s Bazar”, Tom Kublin, per un periodo breve ma intenso, in quanto Kublin mancò per un ictus solo 20 giorni dopo. Nel 1964 torna a Milano aprendo il suo primo studio fotografico, dove comincia a lavorare nella moda scattando semplici campionari e pubblicando servizi fotografici su Novità, la rivista che in seguito, nel 1966, diventerà Vogue Italia. Da quel momento inizia la sua collaborazione con Condè Nast, pubblicando anche su riviste internazionali come Vogue America, Vogue Paris e Vogue Germania. Personaggi della scena come Diana Vreeland, Yves Saint Laurent e Richard Avedon, fanno parte della sua storia tanto importante quanto le collaborazioni con le attrici più iconiche di tutti i tempi da Audrey Hepburn a Veruschka e Jerry Hall. Fondamentale tappa del suo percorso è l’esperienza con Vogue Italia insieme alla realizzazione delle più grandi campagne pubblicitarie per marchi internazionali come Valentino, Gianni Versace, Gianfranco Ferré, Armani, Bulgari, Chanel, Yves Saint Laurent, Dolce & Gabbana, Vivienne Westwood e tanti altri con il quale ha interpretato le famose creazioni degli anni ’80, in concomitanza con la conquista del Made in Italy e del prêt-à–porter italiano. Gli anni Novanta portano Barbieri a compiere diversi viaggi alla scoperta della cultura senza limiti, uniti alla curiosità per paesi lontani e gruppi etnici, per la natura e per gli oggetti più disparati secondo le sue ispirazioni, dando vita poi, a meravigliosi libri fotografici in cui luoghi e realtà lontane vengono raccontati attraverso il suo impeccabile gusto. Nonostante le foto siano in esterno e spesso immediate o fugaci, risultano talmente “perfette” da sembrare scattate in studio, unite alla spontaneità della popolazione e dei luoghi con un’eleganza ed uno stile che lo contraddistinguono sempre, riuscendo ad intrecciare la spontaneità della fotografia etnografica al glamour della fotografia di moda. Classificato nel 1968 dalla rivista Stern come uno dei quattordici migliori fotografi di moda al mondo, oggi vince il premio Lucie Award 2018 come Miglior Fotografo di Moda Internazionale. Barbieri continua tutt’oggi ad essere richiesto come fotografo e artista per campagne pubblicitarie e redazionali, oltre ad essere presente con le sue opere nel Victoria & Albert Museum e National Portrait Gallery di Londra, nel Kunsforum di Vienna, nel MAMM di Mosca e nel Musée du quai Branly di Parigi.