"Ci sono molti insegnanti che potrebbero rovinarti. Prima che tu te ne accorga potresti essere una pallida copia di questo o di quell'insegnante. Devi evolverti da solo."
Non è facile parlare di Lei, anche perché ci si rende conto di affrontare un’artista in perenne mutamento. Lei è famosa per i suoi ritratti, per la fotografia documentaria e per quella scientifica, oltre che come archivista del maestro francese Eugène Atget. Negli anni Trenta realizzò un grande progetto dedicato alla città di New York, immortalando le trasformazioni in atto nella città. Ci troviamo di fronte a un corpus d’opere non imponente, ma variegato; dove per comprendere occorre tornare indietro e cambiare strada: quella che lei ha percorso prima di noi, umili osservatori. “La visione del ventesimo secolo è stata creata dalla fotografia, l’immagine ha quasi sostituito la parola come mezzo di comunicazione”. Con queste parole Berenice Abbott, grande interprete dello scatto, ha saputo cogliere l’essenza della fotografia, dandone una visione moderna, definendone il rapporto con il reale sin dal secolo scorso.
LA MOSTRA
Abbiamo visitato la mostra Berenice Abbott Topographies, presso il Palazzo delle Paure di Lecco (rimarrà aperta sino all’8 settembre). La rassegna presenta 80 fotografie in bianco e nero, capaci di ripercorrere l’intera sua carriera, e declinate in tre sezioni che definiscono il suo codice espressivo maggiormente caratteristico: Ritratti, New York e Scienza. Il percorso espositivo si apre con i ritratti, realizzati a partire dal 1925 all’interno dello studio parigino di Man Ray, di cui fu assistente. Con queste fotografie, Berenice Abbott ottenne subito un grande successo, sia di critica che commerciale, al punto che entro un anno riuscì ad aprire un proprio atelier e a esporre le sue opere in galleria. Tra gli scatti più riusciti vi sono quelli alla scrittrice Solita Solano, al fotografo Eugène Atget, all’attrice Dorothy Whitney, a Jean Cocteau o ancora, quello a James Joyce.
Tornata negli Stati Uniti nel 1929, Berenice Abbott abbandonò il tema del ritratto a causa delle pressioni economiche che seguirono la Grande Depressione, per dedicarsi alle fotografie di New York, di cui documentò i cambiamenti e la crescita come metropoli e che possono essere definite come i suoi lavori più riusciti. I primissimi scatti furono semplicemente degli appunti, colti con una piccola fotocamera, per poi essere tradotti, nel 1932, in grande formato grazie alla sua macchina Century Universal.
La mostra prosegue con la sezione dedicata alla scienza. Nel 1939, infatti, la Abbott iniziò il suo progetto più ambizioso. Credendo che i fenomeni scientifici fossero validi soggetti artistici, s’impegnò a dimostrare che la fotografia era il mezzo più adatto e qualificato per unire arte e scienza. Lavorò per oltre vent’anni in solitudine a questo progetto, fino a quando, nel 1958, il suo lavoro venne riconosciuto dal Physical Science Study Committee e venne assunta dal MIT - Massachussets Institute of Technology.
NOTE BIOGRAFICHE
Berenice Abbott nasce a Springfield, Ohio, il 17 luglio 1898. Studia giornalismo per un breve periodo alla Ohio State University prima di dedicarsi da autodidatta alla scultura a New York. Nel 1921 si trasferisce a Parigi divenendo parte dell’American expatriate society. Impara la fotografia lavorando come assistente nello studio di Man Ray, dal 1923 al 1925, che la incoraggia nei fotoritratti. Decide in seguito di dedicarsi in proprio alla fotografia di ritratto immortalando personaggi famosi, tra i quali Max Ernst. Le sue foto si distinguono da quelle di Man Ray per il tentativo di catturare la gestualità e le espressioni del volto, secondo uno stile ritrattistico che sarà sinonimo di Abbott. Tiene una prima personale a Le Sacre du Printemps nel 1926 e la sua reputazione è già affermata quando, nel 1928, partecipa alla collettiva “Premier Salon Independant de la Photographie”.
Nello studio di Man Ray, Abbott conosce Eugène Atget (1857-1927), un fotografo documentarista che influenzerà la sua successiva produzione fotografica. Abbott acquista migliaia di negativi e stampe dallo studio di Atget prima di tornare a New York nel 1929. Seguendo l’esempio di Atget documenta la città di New York (la gente e gli edifici) in una serie di scatti che verranno pubblicati nel volume Changing New York (1939). Negli anni quaranta e cinquanta si dedica alla fotografia scientifica, adattandovi equipaggiamento e tecnica. Tra il 1958 e il 1961 lavora per il Physical Science Study Committee of Educational Services realizzando foto che illustrano le leggi della fisica, in seguito pubblicate in tre volumi. Nel 1966 si trasferisce a Maine, dove continua a realizzare foto documentaristiche, pubblicate in A Portrait of Maine (1968). In questo periodo organizza la ristampa dei suoi primi lavori in diverse raccolte pubblicate dalla Parasol Press. La sua opera è stata oggetto di mostre presso lo Smithsonian Museum (1969), il Museum of Modern Art (1970), e la New York Public Library (1989). Berenice Abbott muore a Maine il 9 dicembre 1991.
COME IN UN FILM
Guardiamo a lungo il ritratto di Berenice, quello a firma di Man Ray. Una frangetta impertinente incornicia due occhi chiari: dolci ma attenti. La fantasia ci trasporta alla New York dell’epoca. Siamo nei cosi detti Anni Ruggenti, quelli del Grande Gatsby per intenderci, dove cinema, letteratura e musica (ma anche fotografia) offrono il meglio di sé. L’espansione industriale avanza, favorendo mode e tendenze in ogni campo, prima dei fallimenti della grande depressione, datata 1929, e del proibizionismo. Nella Grande Mela si costruiscono grattacieli.
È vivace, Berenice, e anche ambiziosa, nel Greenwich Village incontra Marcel Duchamp e Man Ray. Li vediamo parlare, ma facciamo fatica a sentire. Le note di un Charleston nascondono le parole. Il ritmo musicale è dinamico, elegante, espressione della gioia di vivere, anche se sincopato. “Vieni da me domani”, avrà suggerito Man Ray; e Berenice si sarà recata sicuramente all’appuntamento, conscia di dover posare per dei ritratti, o anche di più. Li vediamo già insieme i due: lui è deciso, attento, capace; lei ascolta, osserva, ha coraggio. Man Ray avrà detto: “Io mi sforzo semplicemente di essere il più libero possibile: nel mio modo di lavorare; nella scelta del mio soggetto”. “Nessuno può dettarmi norme o guidarmi”. “Possono criticarmi, dopo, ma allora è troppo tardi”. “A quel punto il lavoro è fatto e io ho assaporato la libertà”. “Per esprimere ciò che sento, mi servo dello strumento più idoneo per dar corpo a quell’idea”. “Non m’interessa essere coerente come pittore, come creatore di oggetti o come fotografo”. “Posso servirmi di varie tecniche diverse, come gli antichi maestri che erano ingegneri, musicisti e poeti nello stesso tempo”. Berenice ha ascoltato, come solo certe donne sanno fare. La vediamo ancora lì, sempre con la frangetta in ordine e lo sguardo attendo. Lei è fuggita dalla provincia con decisione e, di fronte all’artista, ha già scelto: il suo destino, il prossimo viaggio, la fotografia. “Vengo anch’io”, deve aver detto. “Dove?”, avrà chiesto Man Ray. “A Parigi”, è stata la risposta di lei.
Le note del Charleston echeggiano ancora. Berenice cammina a passo spedito. Alle volte sembra correre. La frangetta sobbalza e gli occhi guardano le luci e i clamori di una città mai ferma. Le sue idee sono già alla fotografia, ai ritratti, ai futuri incontri con i propri soggetti; a cosa dire, ma soprattutto a cosa chiedere a chi avrà di fronte.
DA SISTEMARE
arrivano in tanti da ogni angolo d’Europa e d’oltreoceano; tra questi le più grandi personalità dell’arte, della cultura, della musica e dello spettacolo. C’è aria di rinascita e la città diventa la capitale internazionale della creatività. Non ha fatto fatica ad ambientarsi, Berenice, forte della sua scelta. Accetterà il ruolo di assistente con Man Ray, ma già gli occhi guardavano altrove, quando, osservando il panorama dalla finestra, immaginava un atelier tutto suo, in quella Parigi che ormai gli appartiene. Ed eccola lì, la nostra fotografa, proprio dove aveva sognato. Poseranno per lei: Jean Cocteau, James Joice, Max Ernst e André Gide, il pittore giapponese Foujita e la principessa Eugénie Murat, nipote di Napoleone. È soddisfatta, Berenice, contenta. I suoi ritratti verranno esposti alla galleria Sacré du Printemps e sarà ancora un successo. Lei ne è consapevole: si sente fotografa, autrice e artista.UN ALTRO INCONTRO
Non sappiamo dove, come, quando; proviamo solo a immaginare. Berenice Abbott incontra il fotografo francese Eugène Atget (Libourne, Francia, 1857 - Parigi, 1927), un anziano signore, taciturno e timido, conosciuto soprattutto per il suo lavoro sui cambiamenti del paesaggio urbano di Parigi.
Atget, infatti, è stato testimone di una Parigi che stava scomparendo per lasciar posto ai grandi cantieri, che avrebbero fatto della Capitale francese una città moderna. Per Berenice Abbott, il fotografo francese Atget diventerà fonte d’ispirazione, segnando una svolta nel suo percorso fotografico.
Quando la Abbott, nel 1929, torna a New York, trova una città molto diversa, con i palazzi demoliti per far spazio a nuovi grattacieli. Decide così di realizzare qualcosa di simile al lavoro di Atget: inizia a scattare fotografie in ogni dove, per raccontare la vita degli abitanti e i mutamenti della città.
A questo progetto la Abbott dedicò tutti gli anni Trenta, quelli della Grande Depressione. Ne nascerà la sua opera più famosa: “Changing New York”, un volume pubblicato nel 1939, tra i più importanti nella storia della fotografia del ventesimo secolo.
L’IMPEGNO SCIENTIFICO
Una sezione della mostra di Lecco è dedicata alla scienza. Nel 1939, la Abbott iniziò il suo progetto più ambizioso. Credendo che i fenomeni scientifici fossero validi soggetti artistici, s’impegnò a dimostrare che la fotografia era il mezzo più adatto e qualificato per unire arte e scienza. Lavorò per oltre vent’anni in solitudine a questo progetto, fino a quando, nel 1958, il suo lavoro venne riconosciuto dal Physical Science Study Committee e venne assunta dal MIT - Massachussets Institute of Technology. Tra le immagini di questo periodo è presente in mostra quella del generatore elettrostatico di Van de Graaff.
CONCLUSIONI
Cambiamento & progresso: in due parole, questo è quanto possiamo concludere dopo aver incontrato, in mostra, Berenice Abbott. Lei ha affrontato la vita con decisione, e coraggio; avendo anche la capacità di tornare, se necessario. Arriverà a New York per ambizione e lì tornerà cambiata, matura, forse taciturna come Atget. La Grande Mela doveva essere compresa nuovamente, raccontata forse, sicuramente testimoniata; e lei ha continuato a chiedere, come di fronte ai soggetti da ritrarre: a se stessa e alla sua fotografia. La scienza l’aiuterà a cercare ancora, fino alla fine: con quegli occhi chiari.
Buona fotografia a tutti
I GRANDI AUTORI
Bernice Abbott
Bernice Abbott, Nasce a Springfield, Ohio il 17 Luglio 1898, fotografa americana famosa per la sua fotografia in bianco e nero di architettura di New York City e design urbano degli anni '30. Dopo aver studiato in Ohio, si trasferisce a New York City per studiare scultura dove incontra molti visionari modernisti tra cui Man Ray.
Abbott iniziò a studiare fotografia nei primi anni 1920 sotto la supervisione di Man Ray con il quale lavorava come assistente fotografica. Mentre lavorava con lui, si imbatté nelle opere del fotografo Eugene Atgel, la cui influenza è abbastanza evidente nel suo lavoro. Poco dopo, ha fondato il suo studio di ritratti dove ha fotografato vari artisti e personaggi letterari che vivevano a Parigi in quel momento.
Abbott fondò la 'Photo League' con il collega fotografo americano Paul Strand nel 1936. Successivamente, ha assunto un posto di insegnante nella scuola di New York per la ricerca sociale fino al 1958. Le fotografie di New York di Abbot sono apparse nella mostra "Changing New York" , al Museo della Città nel 1937 e alla fine degli anni '50, iniziò a scattare fotografie che illustravano le leggi della fisica. Le sue opere hanno rivoluzionato il campo della fotografia documentaria e ha continuato a fotografare fino alla sua morte nel 1991 all'età di 93 anni.