"Credevo nei sogni e cercavo di cavalcarli. Non ho mai smesso di ricercare. Mi rispecchiavo nei lavori di Man Ray. “Posso manipolare e voglio continuare a farlo”, ripetevo spesso a me stesso. Juliet, moglie dell’artista, raccontava spesso di lui e io avrei voluto vi fosse stata una donna simile anche per me. La mia poetica però era più vicina a quella di Giacomelli, viveva anche di musica"
LO SCATTO E L’ARTISTA
Incontriamo Maurizio Galimberti in casa sua, a Milano. Ci accoglie con ospitalità. Un lungo corridoio ci conduce in una sala piena di libri. Alle pareti fanno mostra di sé alcuni suoi mosaici. Una tenda bianca si gonfia di sole e di vento. Usciamo in terrazzo, prendiamo un caffè. Siamo imbarazzati nel parlare con lui, soprattutto perché non sappiamo da dove iniziare. Lui è il fotografo e l’artista, ma anche il pensatore che plasma le immagini con le mani, lo sperimentatore che compone e ricompone, l’interprete che fa suo il proprio tempo, allungandolo se serve. E’ perfino studente, quando vuole; perché è nell’applicazione che vive il suo pensiero fotografico. Tante cose, troppe: difficile trovare un pertugio.
Siamo abituati a parlare con fotografi che diventano come noi quando poggiano la fotocamera sul tavolo. Lo strumento, nel loro caso, diventa elemento di coesione con il linguaggio fotografico, ma solo quando serve. Subito dopo, proprio scatola e obiettivo possono fungere da separatori: l’uomo da un lato e l’immagine da un altro. Forse stiamo esagerando, certo è che Maurizio è interprete e strumento. La fotografia vive in lui permeandosi delle sue stesse sensazioni, degli stati d’animo che lo accompagnano. Manipolazioni e mosaici rappresentano quasi un’esigenza fisica e mentale, per dare sfogo all’arte, assorbita nel pensiero fino a diventare idea.
A questo punto sarebbe facile scoprire come Cubismo, Dadaismo e Futurismo abbiano lasciato tracce importanti nell’ispirazione di Galimberti, assieme ovviamente al surrealismo e all’arte concettuale di Marcel Duchamp. E’ lui stesso a dircelo, e soffermandoci sulle definizioni rischieremmo di rendere più impermeabile l’anima del fotografo – artista. Lui è interprete e strumento, dicevamo; così, forse (non ce ne voglia Maurizio), la sua personalità si divide proprio durante il Click. Tutto è già avvenuto, prima; e molto deve ancora accadere. “Spellicolerà”, per guardare, solo quando vorrà, dopo un tempo necessario. Le verifiche non occorrono, perché i significati sono dentro di lui già prima e subito dopo quel Click: quando l’idea si riposa. Tra lo scatto e l’artista, appunto.
D] Maurizio, quando hai iniziato a fotografare?
R] A sedici anni, per passione. Tra il ’78 e l’80 ho partecipato a numerosi concorsi, vincendo spesso. Ricordo che iscrivevo più fotografie, a nome anche di mia mamma, che poi andava a ritirare il premio. Capii così che ero un fotoamatore. Da lì in poi è iniziata la mia ricerca nell’ambito dell’arte. Non mi piaceva la Camera Oscura, non volevo il buio: forse per questo è entrata la Polaroid nella mia vita, saldamente dall’82, con dei lavori di sperimentazione poi confluiti nel Libro Metamorfosi (Electa).
D] Dai concorsi all’arte, un passo deciso e coerente …
R] Sì, portato avanti con caparbietà, anche se i riconoscimenti sono venuti pian piano. Ricordo che fui notato nell’88, in occasione di una mostra a Vicenza. Incontrai anche Nino Migliori e il suo gruppo; ma io non riuscivo a vivere un’esperienza d’insieme, anche perché non volevo farmi influenzare. Nel ’91 ho iniziato a collaborare con Polaroid, producendo delle fotografie artistiche per loro. Anche Conde Nast si accorge di me (Vogue Pelle), e a loro dedicai alcune delle mie ricerche artistiche, questa volta a tema.
D] Ricerca e dedizione, ma il marchio Polaroid emerge in tutta la storia …
R] Nel ’94 produco, per loro, Polaroid Pro Art, un manuale per l’uso creativo dei materiali in questione. Mi riconobbe il grande pubblico, il che mi fece entrare nel collezionismo. Iniziavano a interessarsi alle mie opere. E’ stata importante la ricerca sul ritratto.
D] Quando hai scoperto per la prima volta la fotografia istantanea?R] L’ho incontrata in due occasioni: a 12 anni con mia madre (eravamo alla Rinascente) e a 25. Come ti dicevo, non sopportavo il buio della Camera Oscura. Non avrei potuto continuare a fotografare senza la possibilità dello scatto istantaneo, che alla fine diventò quasi un bisogno fisico.
D] Dopo i venticinque anni, ancora un ventennio di rincorsa …
R] Sì, e d’investimenti. Credevo nei sogni e cercavo di cavalcarli. Non ho mai smesso di ricercare. Mi rispecchiavo nei lavori di Man Ray. “Posso manipolare e voglio continuare a farlo”, ripetevo spesso a me stesso. Juliet, moglie dell’artista, raccontava spesso di lui e io avrei voluto vi fosse stata una donna simile anche per me. La mia poetica però era più vicina a quella di Giacomelli, viveva anche di musica.
D] Quel desiderio di Juliet è diventato un progetto …
R] Sì, con Ari Dada Kalimba, dove la donna diventava una mia musa. Sperimentavo e la fotografavo con gli abiti dell’emozione. Sviluppavo il ritratto e la lettura su una donna.
D] Che tipo di donna veniva fuori?
R] Bella, bel viso. Juliet, al mattino, portava il caffè a letto a suo marito. Lui ne sentiva il corpo, il calore: gli si apriva un mondo d’immagini. Lo stesso è stato per me, con Arianna. Era la musa senza tempo, né età. Forse abitava a Parigi ai tempi di Man Ray, Kiki, Cocteau; probabilmente ha parlato con Picasso.
D] La tua è stata passione per la fotografia?
R] Sì, ed è risultata fondamentale. Il mio essere fotografo nasce da lì.
D] Come sarebbe la tua vita senza la fotografia?
R] Mi troverei a fare il geometra, purtroppo. Per fortuna, le cose sono andate bene. Dovrebbe essere un diritto di tutti portare avanti l’attività per il quale si prova passione.
D] Ha avuto degli elementi ispiratori?
R] All’inizio, Fontana, Giacomelli, Robert Frank. Quando poi ho intuito la mia strada, ecco comparire Van Gogh e anche il mondo del design, Cesare Cassina in testa; ma poi, Man Ray e Alfred Stieglitz. Solo i pittorialisti non mi hanno influenzato. Voglio poi citare anche Picasso, Marcel Duchamp e, recentemente, Costantin Brancusi. Per finire, ecco Glenn Gould il musicista. A lui si devono le dilatazioni musicali, un po’ quello che io faccio in fotografia.
D] Crolla il fattore tempo, che è della fotografia …
R] Non c’è più, nemmeno la sua contrazione. E’ il materiale che me lo permette.
D] C’è un tempo di lavoro, però …
R] Se “spellicolo”, scatto tutto e guardo dopo; se escono subito, lascio lì le fotografie. Aspetto.
D] Nessuna verifica?
R] Il libro è una verifica, quella degli strumenti.
D] Per te, in sostanza, cos’è la fotografia?
R] Un medium che amo poter utilizzare.D] Pare che la tua arte viva tra progetto e contaminazioni …
R] Vero, ma dentro c’è dell’altro. Sicuramente Duchamp continua a ispirarmi per la sua poetica. Alla base di ogni foto, però, c’è sempre uno stato d’animo, una situazione mentale, una sensazione che determina un tipo di lavoro piuttosto che un altro.
D] C’è, tra le tue, una fotografia preferita, alla quale sei particolarmente affezionato?
R] Sì, una riguarda mia madre, l’altra è quella di Johnny Depp, pubblicata su Times Magazine. Quest’ultima mi ha collocato in un ambito internazionale. Compresi peraltro come i miei ritratti possedessero una forza tutta loro. E’ stata una bella esperienza.
D] Siamo quasi alla fine e una domanda decisiva devi concedercela: ti senti più fotografo o artista?
R] Sono partito dalla fotografia, però adesso mi sento più artista. Il mio viaggio fotografico si è contaminato con la storia dell’arte. Eccone la ragione.
D] Qual è la qualità più importante che un fotografo-artista come te deve possedere?
R] La voglia di studiare. I fotografi sono autori solo se guardano alla storia dell’arte, come continuo a fare io stesso. Loro non devono limitarsi a scattare, ma occorre che si lascino contaminare dallo studio, impegnandosi a imparare, cambiando se necessario.
D] I tuoi mosaici scompongono la realtà o la analizzano a fondo?
R] Sicuramente la analizzano. La metodica è emozionale, musicale direi. È come se la realtà potessi suonarla al pari di uno spartito musicale: lo interpreto in base alla voglia di starci dentro, più o meno a lungo.
D] Scatti anche al di fuori del lavoro? In famiglia ad esempio?
R] Sì, anche se la mia famiglia la fotografo poco. Nel tempo libero produco gli stessi scatti di quando lavoro. Io opero libero dalle committenze. Non fotografo determinati soggetti perché mi dicono di farlo. Non lo faccio. Ritraggo ciò che desidero, perché mi piace. Per fortuna godo di questa libertà.
D] Potessi scegliere, che fotografia scatteresti domani?
R] Ancora Arianna. Un’immagine dalla quale venga fuori la mia vita contorta, il mio essere vittima; la sofferenza interna di una persona.
D] C’è un senso di solitudine nelle tue parole …
R] Mi sento solo: soffro e sto male. Ho pochi amici e sento la mancanza della quotidianità, quella che m’impedisce di essere nonno pur avendo un nipotino.
D] Colpa dell’arte o del carattere?
R] Certamente dell’arte: un tempo non ero così. La fotografia ti mangia dentro e il fuoco sacro finisce per bruciarti. Devi essere solo.
D] Potessi fati un augurio fotografico da solo, cosa ti diresti?
R] Vorrei rimanere lucido fino agli ultimi istanti della mia vita, continuando a fotografare; con molta umiltà e gioia Ecco, sì: desidero la gioia della fotografia.
Buona fotografia a tutti
I GRANDI AUTORI
Maurizio Galimberti
Note biografiche
Maurizio Galimberti nasce nel 1956 a Como. Mentre frequenta l’istituto per geometri, sviluppa una precoce passione per la fotografia e partecipa a numerosi concorsi. All’inizio usa la pellicola analogica, ma ben presto passa alle polaroid, per vedere subito il risultato del suo scatto senza aspettare. La scelta della polaroid si rivela azzeccata, perché la pellicola istantanea produce dei colori magici.
Nei primi anni ’90 Galimberti abbandona l’azienda edile della famiglia per dedicarsi esclusivamente alla fotografia. Nel 1991 inizia a collaborare con la polaroid, diventandone il testimonial ufficiale. Nel 1995 esce il volume Polaroid Pro Art e nel 1997 i suoi mosaici di polaroid entrano nel mondo del collezionismo d’arte.
La tecnica di Galimberti, che risente dell’influenza di Boccioni e di Duchamp, consiste nel fare un collage di polaroid ciascuna delle quali riproduce un particolare diverso dell’immagine da ritrarre. Grazie a questa tecnica particolare Galimberti arriva al primo posto nella classifica dei foto-ritrattisti italiani della rivista Class e partecipa come ritrattista a diverse edizioni del Festival del Cinema di Venezia, immortalando i divi del cinema, come Johnny Depp. Anche alcune importanti aziende (Fiat, Caffé Illy, Lancia, Nokia) gli commissionano delle opere.