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Pepi Merisio

"Prevedere ciò che accadrà. E’ così per tutti i ritratti ambientati. Occorre capire la logica del momento: bisogna intuire. La delusione più grande nasce quando credi di aver previsto tutto, ma in realtà non accade nulla. La tua idea si dissolve. Questo vale per la gente che vuoi ritrarre, ma pure per la luce. Ricordo un tramonto che cercai il giorno dopo: non c’era più. Ci sono dei momenti che accadono una sola volta, e basta."
PEPI MERISIO
| Mosè Franchi | GRANDI AUTORI

LA FOTOGRAFIA GENTILE

Osserviamo a lungo le fotografie di Pepi Merisio: prima l’una, poi l’altra; alla fine tutte insieme. Chiudiamo il volume e ci appoggiamo allo schienale: vogliamo riflettere. Ci deve essere, per le immagini viste, un elemento legante che vada oltre le definizioni che abbiamo già letto o sentito. Il fatto che Merisio abbia raccontato la civiltà contadina e montanara rappresenta un dato scontato: è così. Che poi i soggetti trattati siano individui senza nome e senza storia è un fatto ancor più conclamato.

I meriti del fotografo, però, vanno oltre, e di molto. Forse partono da una consapevolezza antica, respirata nelle terre conosciute sin dall’infanzia, ma no: non basta. Probabilmente deve essere chiamata in causa la concretezza “bergamasca”, quella dove il tempo misura il valore delle azioni. E poi, c’è dell'altro? Evidentemente, pensiamo, una cultura religiosa profonda, dove l’uomo si confronta continuamente con se stesso e le proprie opere, con onestà. Ecco, sì: ci siamo. Riapriamo il volume. Ci accorgiamo che i soggetti, i paesaggi, gli oggetti, sono tutti più vicini. Merisio ha concesso a noi la sua conoscenza, i sentimenti che lo animavano. Ogni immagine racchiude un racconto, esprimendo anche un sentimento, un’emozione, una forte suggestione. Ci sono così passati davanti gioia, dolore, fatica, sacrificio, persino amore, senza che il fotografo abbia edulcorato nulla. Non è un girone dantesco, quello che vediamo, e nemmeno il luogo della bellezza nostalgica di quanto è stato. Le persone che incontriamo sono senza nome e senza storia, ma ne stanno costruendo l’elemento portante, che poi è la vita. Merisio tratta tutti con rispetto. Lo fa nelle sue valli e pure nel corso dei viaggi intrapresi un po’ dovunque in Italia. Cerca, e trova, i medesimi racconti; perché i senza nome sono tali in ogni luogo. Meglio salvarne la dignità, quindi, rendendola palese a chi guarderà. Basta parlare a tutti dando loro del “lei”, pacatamente. E’ un fatto di educazione, quello della fotografia gentile.

D] Pepi, quando hai iniziato a fotografare e perché?

R] A quindici anni circa, con la macchina di mio padre. Il mio è stato un inizio da autodidatta, che col tempo mi ha fatto entrare nel mondo amatoriale. Ricordo quando mi recavo ad Albissola. Nella vicina Savona vi era un negozio che vendeva fotocamere, di fronte alle vetrine rimanevo estasiato.

D] Da amatore hai iniziato a ricevere i primi riconoscimenti, però …

R] Sì, anche all’estero. Nel 1956 iniziavo a collaborare col Touring Club Italiano e con molte altre riviste.

D] Quando arrivi al professionismo?

R] Nel 1962. L’anno dopo sarei entrato nello staff di Epoca, forse la rivista d’immagini italiana per eccellenza.

D] La tua è stata passione per la fotografia?

R] Sì. Essendo free lance, però, dovevo correre, stando attento alle opportunità.

D] La passione è stata importante?

R] Io sono vissuto di passioni e la fortuna mi ha aiutato. Amavo i lunghi viaggi e col Papa ne ho vissuto uno lunghissimo. Occorre però fare una considerazione: come tutti i lombardi, ero “tarantolato” dal lavoro. Le maggiori soddisfazioni le trovavo nell’impegno quotidiano.

D] Pepi, come ha curato la tua formazione?

R] Ho fatto tutto da solo. Nel negozio di Savona ho comperato un manuale, visto che non potevo acquistare la tanto agognata Contax. Ho letto più volte quella pubblicazione, l’ho imparata a memoria. E’ valso più quel libro che tre anni di corsi, anche nell’uso dell’ingranditore. Man mano migliorava la mia attrezzatura, ma ero costretto a vendere il mio usato.

D] Fotograficamente, come ti definiresti?

R] Un documentarista umano. Sento un legame forte con quanto ho di fronte. La fotografia non è arte, o almeno non solo. Serve per documentare, raccontando peraltro.

Q] Qual è la qualità più importante per un fotografo documentarista quale sei?

R] Prevedere ciò che accadrà. E’ così per tutti i ritratti ambientati. Occorre capire la logica del momento: bisogna intuire. La delusione più grande nasce quando credi di aver previsto tutto, ma in realtà non accade nulla. La tua idea si dissolve. Questo vale per la gente che vuoi ritrarre, ma pure per la luce. Ricordo un tramonto che cercai il giorno dopo: non c’era più. Ci sono dei momenti che accadono una sola volta, e basta.

D] B/N o colore?

R] La risposta è ovvia: bianco & nero. Non voglio parlare male del colore, però. Anche lì mi sono trovato bene, specialmente di fronte a quei soggetti per i quali il cromatismo era essenziale.

D] C’è tra le tue una fotografia che ami particolarmente? La preferita?

R] Ce ne sono alcune, forse tre o quattro: la donna col fieno in testa (Cogne, 1960); la luce della Stazione Centrale, che mi racconta molto; Il ponte di barche sul Po (a Spessa, Pavia, 1972), le chiatte sul Naviglio, a Milano; gli operai sulle ancore nel porto di Genova (oggi andrebbero tutti in galera).

D] Hai osservato dei fotografi che ti abbiano ispirato?

R] Per primo metterei Henri Cartier Bresson. Lui mi ha fatto capire come la vita, e quindi l’uomo, sia quanto di più importante da fotografare. Non potevo continuare a ritrarre soggetti inanimati, come in realtà facevo agli inizi. Mi piace ricordare un altro “grande” autore: Pietro Donzelli, profondo conoscitore della fotografia italiana, nonché curatore e organizzatore di mostre. Oggi non vediamo quasi nulla di suo. De Biasi era un collega, ma molto bravo come fotografo, universale direi. La sua dipartita è stata una perdita. Alla fine, ma non per ultimo, voglio citare Gianni Berengo Gardin. Abbiamo prodotto dei libri insieme. Il direttore del Touring diceva di lui: “Berengo non è un fotografo, ma un bene culturale”.

D] Dopo tanti anni di carriera, c’è un progetto rimasto indietro e che vorresti portare a termine?

R] Ho il rammarico per tante idee che avrei voluto finalizzare, ma che oggi sono irrealizzabili. Mi sarebbe piaciuto lavorare di più sul Veneto e anche sulle Dolomiti, ma gli ambienti che desideravo raccontare non esistono più, si sono persi dopo gli anni ’60.

D] Perché ci piacciono tanto gli anni ’60?

R] C’era tutto, pur nella modestia: l’orologiaio, lo stagnaio e via dicendo. Si percepiva un senso completo della vita, a Milano e pure nei paesi, in provincia. Oggi siamo americani, però superficiali. In certe parti degli USA vivono più tranquillamente di noi.

D] C’è stato un momento nel quale ti sei detto: “Ci sono riuscito, sono un fotografo”?

R] Un giorno il direttore della Banca Popolare di Bergamo mi chiama chiedendomi un lavoro. Da lì è nato tutto. Ho capito di essere un professionista.

D] Bergamo ti ha dato tanto per la fotografia?

R] Bergamo è un bel centro, mosso anche dalla cultura. Abbiamo l’Accademia Carrara, il Teatro Donizzetti e molto altro. Gli stimoli arrivano da più parti.

D] Stampavi le tue fotografie?

R] Certo, allora essere un fotografo voleva dire stampare: faceva parte della sua vita. Arrivavi a casa col rullino, sviluppavi e ingrandivi. Quello era il mestiere, non sempre considerato al meglio.

D] In che senso?

R] A Caravaggio c’è un Santuario, frequentato dai pellegrini. Tanti fotografi si radunavano lì per ritrarli. Ce ne era uno con la gobba. Quando dissi a mio padre che intendevo lavorare da fotografo, lui mi disse: “Te feret mia el gubin?”. Questa era la sua considerazione per il mestiere. Il Papa, Paolo VI, forse la pensava diversamente. Il suo segretario mi esortava spesso perché mi facessi da parte: “Si nasconda, vada a meditare”. Sua Santità invece diceva: “Merisio, venga fuori”, e si metteva a chiacchierare con me.

D] C’è un’ottica preferita, quella che utilizzi più volentieri?

R] Direi il 35 mm: rappresenta il mio sguardo o poco più. Il 21 mm lo uso senza forzare le prospettive.

D] Dopo tanti anni di fotografia, hai qualche ricordo particolare che è bello riportare alla mente?

R] Ce ne sono tanti. Ricordo la prima volta che vidi la Piana di Castelluccio (meglio nota come Pianogrande). Paesaggisticamente fu un’emozione unica. Io mi recai là che era estate, ripromettendomi di tornare in inverno, convinto di trovare un fascino addirittura maggiore. In effetti, fu così. Ho percepito l’atmosfera della “Vita di San Francesco”, il film di Zeffirelli. Molte scene della pellicola sono state girate proprio a Castelluccio di Norcia. Come ripeto, di ricordi suggestivi ne possiedo tanti, perché li mantengo vivi con la bellezza dei miei luoghi. Io vengo dalla montagna e ne conosco tutti i paesaggi. Siamo in un altro mondo.

D] Potessi scegliere, che fotografia scatteresti domani?

R] Tante, anche in posti dove sono già stato, come quelli del fiume Po. Il paesaggio del grande fiume mi è rimasto dentro, perché aspro e duro alla vita.

D] Il Po pare essere un soggetto difficile …

R] Vero, perché il suo paesaggio è interno. Quando ne esci, tutto cambia: sei di fronte alla pianura. Non puoi guardare il Po come osservi l’Adda (meraviglioso peraltro). Anche il barcaiolo vive al di fuori del fiume. Per navigare, deve scendere l’argine; e lì rimane solo un orizzonte d’acqua.

D] Pepi, col tuo lavoro ti sei concentrato molto sulla civiltà contadina e montanara, quella fatta di gente senza nome. Credi di aver tralasciato altri generi?

R] Fotografare, a livello professionale, è anche una questione di conoscenze, di contatti, di editori. Non escludo né demonizzo altri generi. Nel mio mondo, la clientela voleva ciò che ho portato alla luce.

D] Nessun rimpianto, quindi …

R] No, anzi. Il mio racconto si è sviluppato tra i soggetti che preferivo: situazioni che non esistono più, se non nelle immagini che ho prodotto.

D] Le tue fotografie rappresentano un patrimonio culturale, di certo un materiale per degli studi accademici. Che augurio vogliamo dedicare loro?

R] Spero che chi si trovi a guardarle le osservi con un minimo d’interesse. Non pretendo che vegano comprese, perché parlano di un mondo diverso da quello odierno. Preferirei rimanessero vive, pulsanti; e non relegate a un’area di museo dalle idee polverose.

D] La tua produzione di libri è stata imponente …

R] Ne posso contare più di cento.

D] E le mostre …

R] L’ultima importante è stata quella del Pirellone. Ho esposto al Meeting di Rimini e, negli anni ’80, nel municipio di Zurigo. Si festeggiavano gli ottant’anni della Casa Editrice Atlantis.

D] Ti piace esporre le tue immagini?

R] Amo parlare con la gente delle mie fotografie. Trovo noioso progettare e allestire gli spazi.

D] Potessi farti un augurio da solo, cosa ti diresti?

R] Vorrei scattare una fotografia fresca, dove all’interno possa esservi tutto.





Buona fotografia a tutti

Pepi Merisio

Note biografiche

Pepi Merisio è nato a Caravaggio nella bassa bergamasca nel 1931 e comincia a fotografare da autodidatta nel 1947. Progressivamente protagonista del mondo amatoriale degli anni Cinquanta, ottiene numerosi e prestigiosi riconoscimenti in Italia ed all’estero. Nel 1956 inizia la collaborazione con il Touring Club Italiano e con numerose riviste: Camera, Du, Réalité, Photo Maxima, Pirelli, Look, Famiglia Cristiana, Stern, Paris - Mach e numerose altre. Nel 1962 passa al professionismo e l’anno seguente entra nello staff di Epoca, allora certamente la più importante rivista per immagini italiana. L’ambito ideale della poetica di Merisio è, insieme con la grande tradizione contadina e popolare della provincia italiana, anche il variegato mondo cattolico. Nel 1964 pubblica su Epoca il suo grande servizio Una giornata col Papa avviando così un lungo lavoro con Paolo VI. Dello stesso anno è il suo primo libro dedicato all’amico scultore Floriano Bodini. Da questo momento, mentre continua la collaborazione con grandi riviste internazionali (celebri i tre numeri monografici di Du sul Vaticano, su Siena e sull’Italia cattolica) avvia un’intensa attività editoriale. Caposaldo, dichiarazione d’intenti e summa preventiva della sua attività di narratore per immagini è l’opera Terra di Bergamo in tre volumi, edita nel 1969 per il centenario della Banca Popolare di Bergamo.

Da allora ha pubblicato oltre un centinaio di libri fotografici con editori diversi, tra i quali Atlantis, Bär Verlag, Conzett e Huber, Orell Füssli, Zanichelli, Electa, Silvana, Bolis, M. D’Auria, Editalia, Pubbliepi, Monte dei Paschi, Grafica e Arte, Lyasis e l’ECRA di Roma, per la quale ha curato la collana “Italia della nostra gente”, che ha raggiunto i ventotto volumi.

Per l’Editrice Atlantis e Zanichelli ha pubblicato undici volumi sulle Regioni d’Italia, e otto volumi per la Bolis sulle Terre Marchigiane.

Per il Centro Studi Valle Imagna ha curato Per le antiche strade (2003), Acqua (2003), Un altro Paese (2005) e In Valle Imagna (2009). Con Mario Luzi ha pubblicato il volume Mi guarda Siena (2002). Nel 1972 la Rai gli dedica una puntata della trasmissione Occhio come mestiere, curato da Piero Berengo Gardin. Nel 1979, per la Polaroid, esegue un reportage in bianco e nero ora conservato nella Collection Polaroid International di Boston, nel 1964 consegue il Premio Nazionale di Fotogiornalismo a Milano; nel 1965 il Premio Internazionale di Fotogiornalismo a Genova.

Particolarmente significative sono le numerose opere di documentazione etno-geografica e d’arte, le personali allestite in Italia e all’estero. Da ricordare le mostre alla Helmaus di Zurigo per i 50 anni di Atlantis (1980); 158 fotografie al Teatro Sociale di Bergamo (1985) e a Palazzo Barberini in Roma (1986); Il Duomo guarda Milano all’Arengario (1986); La Valtellina alla Fiera di Milano (1988); Meeting di Rimini (2007). Nel 1980 Progresso fotografico dedica a Merisio un numero monografico. Nel 1982 è L’Editoriale Fabbri che lo accoglie nella collana I grandi fotografi mentre è del 1996 il numero a lui dedicato di Foto Magazine. Nel 2007 la FIAF gli dedica il volume “Grandi autori”. Il Ministero degli Affari Esteri nel 2008 ha incaricato Pepi Merisio di allestire la mostra fotografica “Piazze d’Italia”, per le principali capitali europee. Nel 2010 la grande mostra “Ieri in Lombardia” per la Regione Lombardia nel Grattacielo Pirelli a Milano. Nel 2011 è invitato alla 54ª Biennale di Venezia.

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