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Toni Thorimbert

“Negli ultimi dieci anni la moda è diventata parte di un progetto. Non più un’estemporanea espressione che segue o anticipa i tempi e le tendenze della moda quanto un progetto più complesso che viene elaborato e prodotto con lo scopo di produrre comunicazione.”
TONI THORIMBERT
| Mosè Franchi | GRANDI AUTORI

C’era un ragazzo che come me....

È una storia di periferia, quella di Toni Thorimbert, il professionista della settimana. Già ci immaginiamo i palazzoni, i prati spelacchiati, i bambini (tanti) evitati dal benessere e messi alla prova dalla terra di confine. “C’era un ragazzo, che come me” diventa quindi un ritornello di molti, per coloro cioè che lo hanno incontrato nelle giornate vuote di fuori città: tra bande, ragazze, bar, pericoli. Eppure ci piace pensare che quegli anni abbiano formato, soprattutto fotograficamente, lo sguardo di Thorimbert e che lui stesso sia riuscito a completare l’inquadratura della periferia con tutto ciò che mancava.

Ecco che allora il “fuori città” diventa un valore, almeno per alcuni; un vero laboratorio di idee, messe a confronto con il limite, col bene o il male, con la vita, ma anche con il pericolo. Non solo, la periferia divie ne un’anticamera, una via d’accesso per un luogo migliore: dove sviluppare quel linguaggio fotografico diventato più preparato e consapevole.

“C’era un ragazzo”, dicevamo, ma i valori staminali sono rimasti; tra questi: il gioco dei limiti ed il rispetto, per la fotografia soprattutto. L’immagine e la sua costruzione richiedono tempo, metodo, dedizione: questo perché scattare è un gioco a levare che completa, restituendo una realtà piccola rispetto a quanto si vede. “C’era un ragazzo” che però ha conservato tutta la sua coerenza: prima nel reportage, poi nel ritratto, fino alla moda. Questo vuol dire dettare le proprie regole, con coraggio: facendo di ogni genere il proprio, sempre nell’ottica del levare completando.

“C’era un ragazzo”. Ma di strada ne ha fatta: dai televisori sempre accesi, fino al mondo delle star. In mezzo però ci sono stati i film di Bunuel, Altman, Antonioni; ed anche quella macchina fotografica gigantesca, dietro la quale inchinarsi quasi in un rito.

“Un fotografo non partecipa, guarda soltanto”, ci dice, eppure alle volte sembra invadere, entrare nell’atmosfera, farla propria. Non è il soggetto, quello che cerca, perché lo sta costruendo nell’inquadratura stessa. Desidera solo andare oltre un limite già raggiunto: davanti a un 300 mm o dietro un 24; come in quei prati d’un tempo, dove era difficile mettere ordine tra il niente ed il nulla.

“C’era un ragazzo che come me amava Avedon e Klein”. La sua è una storia di vita, ma anche una via percorribile. È bello anche questo, e che di mezzo ci sia la fotografia. Quando hai iniziato?

Negli anni ’70, mio padre era un grafico e nel suo studio entrava la fotografia.

Perché? Per passione? Indubbiamente la fotografia ha toccato delle mie corde nascoste, però non credo alle passioni. Da bambino ho sviluppato un gusto nel guardare le cose, interpretando il mondo. Forse la fotografia ha rappresentato una maturazione, ma deve essere letta come un completamento di una via espressiva già tracciata: ti riempie per quello che cerchi. Un fotografo parla con le immagini, ecco tutto.

Il tuo è un modo di scattare molto... intimo

In generale io adotto strategie diverse a seconda dei risulta ti che devo ottenere e questo può essere normale. È comunque vero quello che mi dici, il mio rapporto con il click è par- ticolare: da un lato cerca una coralità che è cinematografica, chiamando in causa tutta l’equipe che mi circonda. Da un altro prevede un contatto soggettivo col mezzo, estremamente privato, cosa che il cinema, quando mi ci sono dedicato, non poteva restituirmi. In fin dei conti, io sono nato come reporter.

Che fotografo sei?

È molto difficile incasellarmi, perché la fotografia è il mio soggetto: il che va un po’ contro all’immaginario collettivo. I miei scatti di moda sono still- life, dove la persona rappre- senta solo una parte del tutto. Qual è la qualità più importante per un fotografo che segue il tuo percorso?

Deve avere una grande ca- pacità di adattamento al mondo. Se vuoi godere del lusso di non essere etichettato da nessuna definizione, il tuo atteggiamento deve essere di grande apertura. Nulla va dato per scontato e neanche per facile, mentre bisogna essere sempre disposti ad imparare: dimenticando di voler stabilire dei punti di vista. Occorre mettersi in gioco, ecco tutto, ripartendo spesso dall’inizio: il che è anche un trucco per non cedere alla vecchiaia.

a vecchiaia subentra quando il tempo ti raggiunge...

Senza dubbio ma anche quando smetti di imparare. Veniamo alle tue immagini, spesso usi un flash frontale. Uso frequentemente la luce lampo: anche con semplicità. Posso dire che quella caratteristica è rimasta impressa nel mio Dna dagli inizi nel reportage.

Ero affascinato da certi fotografi americani, vedi Bill Owens, che illuminavano la scena anche solo per farsi vedere. Loro erano disposti a sacrificare l’atmosfera del momento per far sì che la fotografia li vedesse protagonisti. Ovviamente col tempo ho modificato il mio atteggia- mento stilistico, percorrendo altre strade.

Lavori spesso negli Usa, cosa c’è di diverso?

Negli Usa hai un pubblico. Quello che fai viene visto da tante persone e avvalorato dalle migliori menti in circolazione. Banalmente, è come correre in Formula 1 dove ogni comporta- mento deve essere ai massimi livelli e coerente con le regole del gioco. In Europa vengono affermati dubbi in continuazione, negli Stati Uniti ogni foto può offrire una possibilità certa di migliorare le cose.

Siamo all’inizio della primavera, stagione piena di energia, se potessi farti un augurio da solo per il futuro cosa ti diresti?

Vorrei lavorare nel mondo della fotografia, ma al di fuori dagli schemi commerciali. Meno costrizioni e più attenzione alle immagini.



Buona fotografia a tutti

Toni Thorimbert

Toni Thorimbert nel 1974 si è diplomato ai corsi di fotografia della società “Umanitaria” di Milano. Nel 1977 un’inchiesta sulla vita dei giovani della periferia della città di Milano - pubblicata dal mensile “Abitare” - gli vale una borsa di studio internazionale dell’AFIP (Associazione Fotografi Italiani Professionisti). Negli anni ‘80 il suo tenace apporto ai più innovativi periodici dell’epoca, fra i quali “Max”, “Sette” e “Amica” diretti da Paolo Pietroni, diventa un punto di riferimento nella soluzione del nuovo modello visivo di quegli anni. Gli anni ’90 segnano la sua maturazione come autore anche grazie alle collaborazioni con considerevoli “magazine” internazionali quali “Details”, “Mademoiselle”, “GQ”, “Wallpaper”, “Tatler”, “Brutus”, “Gulliver”, “Das Magazine” e “DU”.

Nel 1995 ha partecipato con Gabriele Basilico, Vincenzo Castella, Mimmo Jodice e Moreno Gentili al progetto “Chimica Aperta”, con un volume (“Leonardo Arte”) ed una mostra itinerante sostenuti da “Federchimica”. Nello stesso anno ha ricevuto il premio dello “Art Directors Club/AFIP” per la creatività nel ritratto fotografico. Nel 1998 ha realizzato per “Chanel” il libro Me stessa: la realizzazione del sé: i ritratti e la vita di quattordici donne contemporanee tra Parma, Napoli e Padova. Tra i suoi clienti pubblicitari spiccano i marchi della “Levi’S”, di “Wrangler”, della “Kodak”, di “Martini”, di “Pirelli” e di “Poste Italiane”, solo per citarne alcuni. Dal 2002 ha stabilito un’intensa collaborazione con “Io Donna”, il settimanale femminile del Corriere della Sera. È docente di “workshops” di linguaggio fotografico ed è stato il curatore della mostra Immagini dal Mondo Interno, una collettiva composta da undici fotografi europei che, sul tema della sfera affettiva e dei rapporti umani, usano la fotografia come parte funzionale nel processo di “auto-analisi”. Nel 1998 una sua rassegna ha rappresentato uno degli eventi dei “Rencontres Internationales de Photographie d’Arles”. Negli ultimi anni Thorimbert ha affiancato all’attività professionale una continua ricerca, che ha immediatamente ricevuto consensi e interesse dal mondo dell’arte contemporanea, inclusa la fotografia. L’inatteso svolgimento “osmotico”, che consente il trasferimento di situazioni ed emozioni, vere raffigurazioni e allegorie dell’epoca attuale, da una cerchia pubblica e professionale a quella più interiore e personale consente all’autore di esprimersi sulla crescita di quel “paesaggio umano” che è andato attestandosi circa alla metà degli anni ‘90 come una delle tematiche più intense della fotografia contemporanea, di cui Thorimbert è, senza nessun dubbio, uno dei più profondi e crudeli interpreti.

“Anche se le attrezzature non erano proprio le ultime novità sul mercato professionale (non era difficile accorgersi delle carenze finanziarie della scuola) e le esercitazioni sembravano, a noi già scalpitanti fotoreporter, noiose e ripetitive (ricordo ancora Antonio Arcari quando ci costringeva per un anno intero a fotografare con la macchina a banco ottico un limone, o una mela, perché ci sforzassimo di tirarne fuori tutti gli aspetti possibili e immaginabili), era un metodo che ti poneva di fronte le scelte del linguaggio fotografico nella sua essenza, applicabile in realtà a qualsiasi genere di fotografia avresti intrapreso alla fine del corso.”.


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