Mi sono sempre interessati tutti coloro che hanno rotto col passato. L’incontro con Pollok mi ha lasciato basito, assieme alla visione delle opere di Veronesi e Man Ray.
Sovvertiamo le regole: iniziamo dalla fine. Abbiamo appena lasciato lo studio di Nino Migliori. Sull’A1, di ritorno verso Milano, incontriamo un traffico estivo, vacanziero. Lo specchietto retrovisore ci restituisce ancora San Luca e la Bologna sottostante. Aveva ragione il fotografo bolognese, quando fotografava di fronte e alle spalle: “Spesso è più interessante quanto accade dietro di noi, perché non viziato dalle nostre scelte”.
Stiamo attraversando la “sua” Emilia, già raccontata negli anni ’50, e ripresa nel libro Crossroads - via Emilia (Damiani Editore, 2006). Il lavoro ci dice molto circa la personalità dell’autore e lo prendiamo ad esempio per definire i contesti nei quali si muove la sua attività artistica.
La fotografia di Migliori rompe le catene della pura rappresentazione per diventare ambito di pensiero, luogo concettuale nel quale si sviluppa il senso dello scatto e non il suo fine (il più delle volte estetizzante in un periodo neo realistico). Quando lui inizia a sperimentare, “l’Italia fotografica” è quella dei Circoli (che lui frequenterà, comunque), dove la dialettica si sviluppa tra i “toni bassi” di Monti e quelli “alti” di Cavalli. C’è una nazione da raccontare e lo faranno in tanti, ispirati dalla fotografia umanistica francese, che pure arriva da noi con Bresson che interpreta Scanno (1951) prima di molti altri.
Migliori partecipa a questo periodo, con viva originalità. I suoi piani di lettura sono differenti, come pure le composizioni: fitte di sguardi e ammiccamenti; già sperimentali, in un certo senso, come quel tuffatore ritratto sul molo di Rimini (1951), assolutamente orizzontale. Un’icona di quel tempo.
Nino però non è contento. Non gli basta il successo e forse non gli serve neanche. Peraltro la sua formazione passa anche per altri lidi. Negli anni cinquanta insieme agli amici Tancredi, Emilio Vedova frequenta il salotto di Peggy Guggenheim a Venezia ed è a quegli incontri, come quelli a Bologna con autori come Vasco Bendini, Vittorio Mascalchi, Luciano Leonardi, Paolo Manaresi e altri, che trova sostegno e affinità culturale. È la pittura a stimolarlo, particolarmente l’espressionismo astratto di Jackson Pollock. Lì comprende come sia possibile rompere con i luoghi comuni, quasi necessario forse. Si assume quindi dei rischi: la sua fotografia sarà di sperimentazione. Contenuti e composizioni non faranno parte delle sue immagini, tantomeno complessità estetizzanti. Sarà il senso del gesto a emergere, dove l’elemento artistico non si nutre degli orpelli tradizionalmente legati allo scatto. Dicevamo che Crossroads poteva fungere da esempio. Ebbene, il tema scelto da Migliori è quello della via Emilia e di tutta la realtà umana, urbanistica, cittadina che riguarda quel tratto di strada abbinato a un territorio. Ciò che gli interessa non è cosa viene raccontato visivamente, ma la sostanza vera del fare fotografia. Migliori si è fatto costruire un dispositivo che monta due macchine fotografiche, le quali puntano i loro obiettivi in direzioni opposte. Con un unico gesto è così possibile realizzare due scatti: uno nella stessa direzione dello sguardo, un altro esattamente sulla visuale inversa. Vengono fuori due immagini speculari che però propongono due porzioni di realtà differenti, le quali fanno riflettere il lettore sulla natura della scelta visuale dell’artista.
Viene sovvertita una regola fondamentale: la correlazione tra occhio e campo visivo. Risulta così messa in discussione la posizione privilegiata del fotografo. L’immagine non vive solo di “rappresentazione della realtà”, tantomeno della sua interpretazione. C’è molto altro da suggerire a chi guarda, al di là di stilemi abusati e consumati: occorre cambiare, sempre.
Abbiamo guardato più volte lo specchietto retrovisore. Volevamo rinfrescare ricordi e idee, come pure quelle domande alle quali il fotografo ha risposto con garbo e generosità. Ne riportiamo alcune al fine di completare lo sguardo su un autore poliedrico, complesso. Lui ha dedicato una vita alla fotografia invadendo lo strumento, analizzandolo; lungo un percorso centripeto che lo ha portato alla radice del gesto fotografico.
Nino, quando hai iniziato a fotografare e perché?
Nel ’48, quando ho avuto tra le mani la prima fotocamera. Durante la guerra ero un adolescente. Ricordo le bombe, i rastrellamenti; ed anche come, al termine del conflitto, finii per ritrovarmi già adulto, con i pantaloni lunghi. Avevo tanta vita da recuperare e la fotografia poteva aiutarmi in questo. Si poteva stare tra la gente, liberamente. Desideravo esistere, partecipare. Fotografia come modo di vivere, quindi... Come maniera per esserci, direi. Sono arrivati i circoli (particolarmente quello bolognese), i concorsi, le mostre. Ho ricevuto tanti premi, ma tutto era legato alla ripetitività e meno al fatto espressivo. Stavo già sperimentando e iniziai a inserire, nei portfoli, alcune delle mie ricerche. Venivano bocciate categoricamente, così cambiai strada. La mia fotografia sarebbe stata sperimentazione pura. Le tendenze dell’epoca mi venivano in aiuto, come quell’informale che poneva l’accento sull’importanza della materia e del gesto.
La tua sperimentazione dura ancora oggi?
Ci mancherebbe altro. Dormo poco la notte e penso sempre a cosa poter fare di nuovo, con la fotografia e soprattutto tramite la luce. Ho trascorso l’ultimo anno e mezzo giocando con i bambini, senza macchina fotografica, maneggiando carte sensibili, sviluppi e fissaggi. Eravamo al MAST, qui a Bologna. La luce è stata la nostra unica fonte d’ispirazione. Abbiamo raccontato delle storie e ne nascerà una mostra, che andrà anche negli USA. È stato divertente.
La tua è stata passione per la fotografia?
Sì, ma profonda, intensa. Non mi sono mai interessati guadagni e successi, né il raggiungimento di uno stile. Ho sempre voluto cambiaredirezione,eloconsiglioancoraoggia tutti. La ricerca non ti restituisce la fama, eppure ti arricchisce dentro. Sperimentare vuol dire anche porsi in maniera diversa nei confronti della committenza... Che, a volte, ho persino rifiutato. Nella metà degli anni ’50 mi sono recato a Parigi. Là ho incontrato Henri Cartier Bresson. Lui mi propose di entrare in Magnum. L’idea non mi convinse, così rifiutai. Provai un dispiacere forte nel prendere quella decisione, ma col tempo mi convinsi che si trattava della scelta giusta. Se non altro, gli obblighi della committenza non avrebbero generato pressioni sulla mia attività.
Nino, come hai curato la tua formazione fotografica?
I Circoli Fotografici mi hanno aiutato molto: quello “bolognese” e anche “La Gondola”. Lì avevo modo di informarmi. Ricordo che Monti mi regalò un libro di Henri Cartier Bresson. Ne comprai altri, assieme alle tante riviste dell’epoca. Leggevo molto.
Hai avuto degli elementi ispiratori?
Due in assoluto: Man Ray, per le sue sperimentazioni (rayogrammi); e Bresson, per quanto ha rappresentato in fotografia, particolarmente negli anni dei miei esordi.
Poni sempre l’accento sulla sperimentazione...
Lo faccio perché la considero sostanziale e valida in molteplici ambiti espressivi. Il pittore sperimenta, ma anche chi scrive: tra struttura narrativa e punteggiatura.
C’è stato un ordine nel tuo percorso sperimentale?
Potrei dirti: Ossidazioni, Pirogrammi, Cellogrammi, Lucigrammi, Idrogrammi, senza dimenticare il Foro stenopeico e il Cliché-verre, come anche le Cancellazioni. No, non è l’ordine temporale a caratterizzare il mio viatico di ricerca. Spesso porto avanti più progetti contemporaneamente e spero di farlo con la dovuta coerenza.
Anche tu, però, hai preso parte al periodo neo realista...
Sì, ma solo agli inizi. Ho anche intrapreso un viaggio in Italia per osservare e capire. Avevo pochi soldi in tasca...
È nato così il tuffatore: un simbolo del tuo lavoro...
Scattai quell’immagine sessantacinque anni fa con una Rolleiflex 6×6. Mi bastarono pochi minuti. Non m’identifico con quella foto, perché è frutto del caso. Ero a Rimini sul molo dove volevo esaminare questo tipo di tuffi, che erano fatti in modo particolare, con una corsa di due o tre metri e il salto. Volevo capire se riuscivo a riprendere una posizione orizzontale del tuffatore nonostante la rincorsa così breve.
Nel tuo percorso artistico entra di prepotenza anche l’arte in genere, particolarmente la pittura...
Mi sono sempre interessati tutti coloro che hanno rotto col passato. L’incontro con Pollok mi ha lasciato basito, assieme alla visione delle opere di Veronesi e Man Ray.
C’è poi stata la ricerca con Polaroid...
Quel materiale sensibile ti regala l’unicità dell’opera artistica. Lo scatto che ne risulta non ha codici interpretativi: è il prodotto industriale ad averli confezionati rigidi e poco modificabili. Si può intervenire sulla materia, però, drasticamente. Viene meno, forse, la scrittura di luce, ma la fotografia vince nei termini dell’oggetto, del prodotto di risulta.
Alcune tue sperimentazioni sono nate per caso: ne sono seguite però idee e progetti, dico male?
La sperimentazione porta sempre al progetto, anche perché devi strutturare ogni cosa. L’archivio e le esperienze pregresse non ti vengono in aiuto.
Dopo tanti anni di carriera, c’è un progetto rimasto indietro che vorresti portare a termine?
Ce ne sono tanti, anche perché non passa giorno senza che mi venga un’idea nuova. Farò tutto, comunque: ho ancora novant’anni davanti a me, tanti quanti ne ho vissuti.
Potessi scegliere, che fotografia scatteresti domani?
Una del tipo di quella che, terminata l’intervista, vedrà te come soggetto: un ritratto a lume di fiammifero. Da tempo, sto ritraendo coloro che entrano nel mio studio. Non c’è nulla di casuale in questo lavoro: scelgo io chi immortalare.
È il momento degli auguri. Te ne puoi dedicare uno fotografico: cosa ti dici?
Non desidero il successo, né la gloria; l’appagamento sì, però.
Non c’è più San Luca sullo specchietto retrovisore, ma la forza dell’incontro con Migliori è ancora presente nelle nostre idee. Pur avendolo già conosciuto, lui ci ha sorpreso, una volta di più. È la sua produzione diversificata a essere esaltante, come anche i cambi repentini di linguaggio. Quella che emerge è un’assoluta coerenza di fondo, condita da una curiosità assoluta. Al centro di tutto c’è comunque la fotografia, visitata a fondo per le sue possibilità espressive.
Un’altra cosa ci preme aggiungere: Nino Migliori è un Maestro, per definizione. Non si è mai nascosto dietro i segreti dell’alchimista, tantomeno facendosi scudo con i misteri dell’arte. Ha sempre donato tutto, senza riserve: perché l’appagamento (ciò che lui desidera) passa anche per la generosità.
Il 29 Settembre compirà novant’anni. Tanti auguri, Maestro.
Buona fotografia a tutti
I GRANDI AUTORI
Nino Migliori
Nino Migliori inizia a fotografare nel 1948. La sua fotografia svolge uno dei percorsi più diramati e interessanti della cultura d'immagine europea. Gli inizi appaiono divisi tra fotografia neorealista con una particolare idea di racconto in sequenza, e una sperimentazione sui materiali del tutto originale ed inedita. Da una parte, quindi, in pochissimi anni, nasce un corpus segnato dalla cifra stilistica dominante dell'epoca, il neorealismo: una visione della realtà fondata sul primato del "popolare", con le sue subordinate di regionalismo e di umanitarismo.
Sull'altro versante Migliori produce fotografie off-camera, opere che non hanno confronti nel panorama della fotografia mondiale, sono comprensibili solo se letti all'interno del versante più avanzato dell'informale europeo con esiti spesso in anticipo sui più conosciuti episodi pittorici. Dalla fine degli anni Sessanta il suo lavoro assume valenze concettuali ed é questa la direzione che negli anni successivi tende a prevalere. Sperimentatore, sensibile esploratore e alternativo lettore, le sue produzioni visive sono sempre state caratterizzate da una grande capacità visionaria che ha saputo infondere in un’opera originale ed inedita. Migliori si trova ad essere, con Veronesi, Grignani, Munari e pochissimi altri, uno degli operatori che in Italia prosegue la ricerca delle avanguardie sul fronte della riflessione sui linguaggi iconici, con la fotografia come nodo centrale dell'immaginario e della ricerca formale contemporanei.
È l'autore che meglio rappresenta la straordinaria avventura della fotografia che, da strumento documentario, assume valori e contenuti legati all'arte, alla sperimentazione e al gioco. Oggi si considera Migliori come un vero architetto della visione. Ogni suo lavoro è frutto di un progetto preciso sul potere dell’immagine, tema che ha caratterizzato tutta la sua produzione. Sue opere sono conservate presso MamBo - Bologna; Galleria d'Arte Moderna e Contemporanea - Torino; CSAC - Parma; Museo d'Arte Contemporanea Pecci - Prato; Galleria d'Arte Moderna - Roma; Calcografia Nazionale - Roma; MNAC di Barcellona; Museum of Modern Art - New York; Museum of Fine Arts - Houston; Bibliothèque National - Parigi; Museum of Fine Arts - Boston; Musée Reattu - Arles; SFMOMA - San Francisco. ed altre importanti collezioni pubbliche e private.