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Giulio Andreini

"viaggiavo per vedere e conoscere; fotografavo per documentare, anche a livello personale. Il rivedere le immagini mi avrebbe fatto rivivere l’esperienza.“
GIULIO ANDREINI
| Mosè Franchi | GRANDI AUTORI

IL MONDO COME PIAZZA

Abbiamo conosciuto Giulio Andreini un po’ per caso, tramite amicizie comuni; poi ci siamo frequentati con una certa assiduità, come spesso capita tra coetanei che condividono la medesima passione. Ne abbiamo apprezzato la precisione, l’attenzione per il dettaglio, ma soprattutto il rispetto nei confronti della fotografia. E’ vero, per lui si tratta di una professione; ma crediamo che altro vada ad alimentare la serietà profonda che nutre nei confronti dello scatto. Di mezzo c’è la cultura, lo studio, la preparazione, il tempo. Già, la vita stessa di Giulio è permeata da tante lentezze, che altro non rappresentano se non momenti formativi. Lui, l’aspetto tecnico l’ha affrontato da solo, anche quando era assistente presso un rinomato studio fotografico fiorentino; ma non era lì la chiave di volta. C’era dell’altro da comprendere e fare proprio, anche studiando Lettere Moderne; ed era l’uomo, quello comune, l’individuo che abitava luoghi lontani, differenti, dissimili per quotidianità.

Una volta gli abbiamo chiesto se avesse raggiunto la piazza del mondo, anche qui: in questa intervista. Lui ha risposto che trovarla risulta impossibile, perché l’umanità è disomogenea, splendidamente differente nelle varie latitudini del globo. Un po’ siamo rimasti delusi dalle sue parole, anche perché volevamo comprendere cosa spingesse uno come lui a partire, a gettare lo sguardo oltre l’orizzonte della propria prossimità. Poi ci siamo consolati, con una spiegazione semplice, anche troppo: il mondo è la piazza di Giulio, il luogo d’incontri e di storie, di avvenimenti e tradizioni. La fotografia diventa quasi un pretesto: non perché poco importante, ma per il fatto di rappresentare unicamente lo strumento terminale. Il resto è studio e preparazione, perché dopo il mondo è lì, vicino come non mai, a schiudere la visione sulla sua piazza più bella: quella dell’uomo.

D] Giulio, quando hai iniziato a fotografare e perché?

R] Nel 1980, no: forse un po’ prima. A fine anni ’70, scattavo in B/N con due fotocamere: una Voigtlander Vito B e una Rollei 35, entrambe di mio padre. Sviluppavo e stampavo. In casa avevo organizzato un piccolo laboratorio, con tutto l’occorrente: ingranditore, bacinelle e via dicendo. Nel 1980 sono partito per il Sud America, con una Yashica e tre ottiche: 28, 50, 135 mm. E’ stato un giro lungo: Colombia, Perù, Equador; il tutto in tre mesi. Con me avevo 15 pellicole, che mi costringevano a centellinare li scatti. Durante il viaggio, ho incontrato situazioni strane, che volevo documentare, anche solo per me stesso. Ai miei occhi si apriva un mondo: persone e culture diverse, tutte attratte dalla mia curiosità; le stesse che sarebbero diventate l’epicentro del mio pensiero fotografico.

D] La tua è stata passione per la fotografia?

R] E’ iniziata come una passione. Io studiavo Lettere Moderne e, dopo l’esperienza del 1980, chiesi di passare al settore antropologico. Preparai una tesi sul linguaggio gestuale, prendendo spunto dal mercato agricolo di Siena (si teneva in piazza della Posta, il mercoledì mattina). Lavorai sulle conversazioni, descrivendole; corredando il materiale con le fotografie.

D] La passione è stata importante?

R] Eccome, a tal punto che nel 1981 decisi di farla diventare un lavoro. Divenni assistente da Guido Guidi e Stefano Biliotti, a Firenze. Loro avevano uno studio associato che si occupava di moda e pubblicità. E’ stata una bella esperienza, perché presi contatto con un mondo particolare, fatto di modelle, stativi, banchi ottici, Hasselblad. Venni anche a conoscenza circa il funzionamento del laboratorio, toccando con mano sviluppo e stampa. L’anno dopo, ero già in viaggio per l’India: quella volta con due Yashica e ventitré pellicole.

D] La tua vita si compone di viaggi e fotografia: quale dei due ambiti risulta essere il più importante?

R] Beh, posso dire che sono assolutamente gemelli. Mi sono avvicinato alla fotografia per ricostruire i viaggi.

D] Fotografia come preteso, quindi …

R] Non saprei: viaggiavo per vedere e conoscere; fotografavo per documentare, anche a livello personale. Il rivedere le immagini mi avrebbe fatto rivivere l’esperienza.

D] Il lavoro poi è diventato una professione, dico male?

R] Nel 1984. Come ti dicevo, è accaduto tutto per fasi. Mi sono laureato con il Prof. Pietro Clemente, docente di Storia delle Tradizioni Popolari. Lui lavorava in maniera visuale e lì inserii la “mia” fotografia. Tornai in Sua America e preparai un portfolio, con l’intenzione di proporlo all’editoria. A Milano, mi presentai al settore libri del Touring. Era appena nata la rivista “Vie del Mondo”, in partnership col National Geographic. Là mi risposero: “Lei si potrebbe fare le ossa con il nuovo magazine”; così, nel 1986, portai a termine un reportage su İstanbul, lavoro a cui sono affezionato ancora oggi.

D] Viaggio antropologico e fotografia; qual è la qualità più importante necessaria ad affrontare questi due ambiti?

R] La curiosità, rivolta al mondo e alle persone. La parte tecnica non è così rilevante, perché facile da affrontare; senza il desiderio di conoscere non si va da nessuna parte.

D] Come hai curato la tua formazione? Da autodidatta?

R] Sì, mi sono formato da solo; ho però approcciato la tecnica in studio: tra banchi ottici e pellicole di medio formato, il che mi ha aiutato molto; questo nonostante il reportage sia un ambito differente.

D] Nel tuo lavoro non hai mai usato il medio formato?

R] No, perché avevo bisogno di agilità e leggerezza, peraltro con due macchine al collo. Anche lo still life di contorno l’ho affrontato col 35 mm.

D] Tu ovviamente hai iniziato con la pellicola, dico male?

R] Sì, all’inizio col B/N; iniziando a lavorare, ero obbligato a utilizzare il colore: l’editoria voleva così. Ecco quindi il Kodachrome, l’Ectachrome e poi la Fuji, quando ha iniziato a venir fuori.

D] Qualche rimpianto per la pellicola?

R] Sì, più d’uno. Io apprezzo molto il digitale, che tra l’altro ha contraddistinto la seconda parte della mia carriera. La pellicola, però, mi ha insegnato tanto: in primis, come ci si pone dietro la fotocamera; poi tutti gli aspetti tecnici, riguardanti principalmente l’esposizione. Io amavo le pellicole e nei viaggi le tenevo sempre con me.

D] Giulio, hai avuto degli elementi ispiratori? Dei fotografi ai quali hai prestato tante attenzioni?

R] Sì, ne ho avuti. Innanzitutto, per me il National Geographic era la Bibbia. Se vuoi dei nomi, ecco Steve McCurry e Reza Deghati, per finire con Hans Madej.

D] Dopo tanti viaggi, dove vorresti tornare?

R] In Asia, molto volentieri. Sappi che non sono più tornato in India e sarei curioso di vedere come quel paese si sia sviluppato. Oggi, il mondo occidentale è omogeneo e smorto, con la globalizzazione ad appiattire tutto. Un tempo, a ogni viaggio, modificavi il tuo universo visivo.

D] Dopo tanti lavori portati a termine, c’è un progetto mai finito che vorresti ultimare?

R] Progetti? Sì, anche più d’uno. Sono interessato ai grandi spazi della natura e anche a quelli dell’uomo, tra architetture antiche e ultra moderne.

D] Hai stretto amicizie nei paesi che hai visitato?

R] Ho sempre lavorato da solo. In loco prendevo contatti con i reparti degli addetti ai lavori: enti del turismo, logistica e via dicendo. Ogni viaggio era organizzato a fondo, ma scattavo in solitudine: mi aiutava nella concentrazione.

D] C’è un’ottica con la quale ami lavorare? Una lente preferita?

R] Per via del lavoro (Touring) ho sempre apprezzato le lenti decentrabili: nelle città, come nella penombra delle foreste. Per le persone, le preferenze si spostano su focali da 20 mm: nella mischia mi restituisce tanto. Anche il 24 mm è d’aiuto, spinto ma gestibile. Alla fine arriviamo al 35 mm: un sogno. Col tempo sono arrivato a possedere più di trenta obiettivi, con anche quel 70-200 mm del quale non puoi fare a meno.

D] Tra le tue c’è una fotografia che ami particolarmente? La preferita?

R] Una fotografia che mi è rimasta nel cuore è quella del bambino dentro lo scatolone, che ha organizzato una sorta d’edicola, con la quale proporre i suoi giornalini. Siamo nel 1980, a Grosseto. Quello scatto l’ho realizzato con Ektachrome 64, il mio primo in diapositiva. Tra le preferite, metterei anche i ballerini di Tango (Argentina) e il baciamano di Belgrado. Puoi trovarle entrambe nel libro appena pubblicato.

D] Curi personalmente il ritocco?

R] Faccio tutto da solo. Il digitale deve essere sviluppato da RAW. Anche col B/N operavo da solo; ed è stato importante, perché mi ha insegnato tanto. Con camera RAW, puoi creare una fotografia come l’hai vista, lasciando un’impronta personale al risultato finale.

D] Durante i tuoi viaggi hai trovato la “piazza del mondo”, un carattere che possa unificare la gente comune del pianeta?

R] No, anche perché è difficile percepire (e offrire) un’immagine univoca, soprattutto in fotografia. La gente del mondo si propone con tanti aspetti. C’è varietà, nonostante la globalizzazione.

D] Il turismo ha rovinato il mondo?

R] Non so, di certo ha offerto dei cambiamenti non belli. La colpa non è del turismo in sé, ma un tempo si viaggiava in solitudine. Oggi trenta persone arrivano con un bus di fronte ai monumenti, per poi soggiornare e in hotel di lusso: l’approccio è distante, povero e freddo. Un tempo si tronava cambiati: il viaggio lasciava un segno. Oggi le destinazioni le chiamano “prodotti”, il che dice tutto.

D] La pandemia cambierà le cose?

R] Le ha già cambiate. Viaggiare è diventato più difficile, poi c’è il distanziamento. Come mantenerlo nei mercati indiani? E poi: come evitare le strette di mano? Le pacche sulle spalle? Il Covid ha modificato i rapporti umani.

D] Un fotografo come te fotografa per un mondo migliore?

R] Io ho sempre scattato nella convinzione, o nella speranza, di poter aiutare qualcuno. Del resto, nelle mie storie racconto di persone; e auspico possano migliorarne altre, intimamente.

D] Hai mai cercato storie fotografabili qui in Italia?

R] Il Touring a volte mi ha obbligato a farlo, anche se spesso dovevo occuparmi di architetture e artigianato. Non conosco bene tutta l’Italia, purtroppo; ma del lavoro ne ho portato a termine.

D] Oggi c’è il cibo a farla da padrone …

R] C’è da tempo. Io non ho mai voluto raccontare di hotel e ristoranti. Oggi ci si concentra troppo in quella direzione.

D] Giulio, potessi dedicarti un augurio fotografico da solo, cosa ti diresti?

R] Vorrei tanto che il mio lavoro diventasse utile agli altri. Nessuno mi ha costretto a organizzare il mio archivio fotografico con la precisione con la quale si presenta oggi. Quando non ci sarò più, chi volesse consultarlo sarebbe in grado di trovare qualsiasi cosa.

D] Tu sei un viaggiatore: dedichiamo un augurio anche al mondo.

R] Spero tanto che sparisca ogni traccia di Covid. E’ giusto essere liberi in tutte le scelte.



Buona fotografia a tutti

Giulio Andreini

Giulio Andreini, nato nel 1959, è un fotografo e giornalista professionista con sede in Italia, a Siena.
 E’ specializzato in reportage geografici, etnologici, di argomenti artistico-culturali, e di news. Le sue foto e i suoi reportage sono stati pubblicati sulle più importanti riviste Europee ed Internazionali, come Focus, Geo, Smithsonian Magazin, National Geographic, Volta ao Mundo, Il Corriere della
Sera, L’Equipe, El Mundo, Rutas
del Mundo, El Pais, Abenteuer
und Reisen, Merian.

Ha
 studiato all’Università di
Siena, dove si è laureato con
 uno studio fotografico sulla
 comunicazione gestuale. Dal
1987 al 1992 ha collaborato come 
fotoreporter per il dipartimento libri del
 Touring Club Italiano e per la rivista
geografica “Vie del Mondo”, pubblicata 
dal Touring Club Italiano con la 
partnership del “Traveler Magazin”
della National Geographic Society, per la
 quale ha prodotto numerosi reportage in
 Italia, Grecia, Jugoslavia, Germania, Filippine.
Ha viaggiato a lungo in Sud America.

Nel 1991 
ha realizzato su commissione il libro monografico “Argentina” per il Touring Club Italiano. Nel 1995
 ha lavorato in Brasile dove ha seguito diversi aspetti culturali del paese, compresa una storia sull’architettura barocca Brasiliana. Nel 1997 ha seguito la ricostruzione della Basilica di San Francesco ad Assisi, distrutta dal terremoto e il complesso lavoro di recupero degli affreschi di Giotto al suo interno. Nel 1999 ha prodotto per il Corriere della Sera un reportage sull’Ordine dei Cavalieri di Malta, che celebravano allora i nove secoli dalla fondazione. Nel 2001 ha lavorato in Dubai e in Jamaica in occasione del “Sum Fest” (il festival internazionale della musica reggae, voluto da Bob Marley). Nel 2002 ha lavorato a Hong Kong in occasione del Capodanno Cinese, sul tema delle tradizioni religiose Taoiste; nel 2003 nello stato Malese del Sarawak, durante la festa del “Gaway Dayak”; e in Ungheria nella regione del Tokaj. Nel 2008 Ha seguito la Pasqua Ortodossa nell’isola di Patmos, in Grecia.

Nel 2009, in occasione dei 20 anni della caduta del Muro di Berlino, ha realizzato un reportage sui luoghi segreti da cui la DDR e la Repubblica Federale Tedesca si spiavano reciprocamente per mantenere il delicato equilibrio della “Guerra Fredda”. Nel 2014 ha realizzato un lavoro sui grattacieli storici e moderni di New York. Nel 2018 si è occupato dei grandi templi Buddisti in Myanmar.

Il lavoro di tanti anni l’hanno portato ad organizzare e valorizzare il proprio archivio fotografico che spazia dai primi lavori di reportage sulla vita quotidiana e di strada, al restauro delle grandi opere d’arte fino, al paesaggio ed al racconto delle città e delle grandi architetture. Considera l’archivio come un importante mezzo per salvaguardare e tramandare la nostra storia e come motivo di crescita verso nuove idee ed iniziative. Giulio Andreini studia e realizza ogni anno nuovi progetti.

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