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Angelo Ferillo

"C’è anche la possibilità, rara a dire il vero, che un cliente mi chieda di fotografare con quel linguaggio. Io lo faccio volentieri, preferendo però il medio formato."
ANGELO FERILLO
| Mosè Franchi | GRANDI AUTORI

LA CONSAPEVOLEZZA DI ANGELO FERRILLO

Parliamo con Angelo Ferrillo al telefono, anche se lo avevamo incontrato più volte. Da subito diciamo che una volta di più ci ha colpito la sua lucidità, la chiarezza con la quale affronta la fotografia e, forse, la sua stessa vita. Il dialogo con lui è cordiale, piacevole, ma non vive di acuti superficiali o superflui: tutto scorre, quasi come in un film. Già, è il suo modo di porsi a piacerci, la sua relazione col mondo, con i colleghi.

La visione su quanto accade, e su come documentarlo, è chiara e consolidata: giusto quindi metterla a confronto, condividerla, senza paura né ritrosie. Di base, la preparazione della quale si è dotato è imponente, alimentata di continuo: colleziona libri e li prende ad esempio, anche con noi. E poi, durante il dialogo ha citato tanti fotografi: Garry Winogrand e Lee Friedlander, ma anche Gastel, Cito, D’Amico, Gilden; segno di una competenza che emerge di continuo e dalla quale trae beneficio ed elementi arricchenti. Le sue fotografie sono schiette, prive di orpelli, riconoscibili, visionarie quanto basta per meravigliare. Perché, non dimentichiamolo, la fotografia anche quello deve fare: contagiare i sensi di una visione, le emozioni trasmesse. Lui definisce lo scatto come documentativo, in realtà, diciamolo, le sue immagini ci offrono qualcosa in più: un vortice di domande, tra certezze e dubbi, perplessità e vie di fuga, ritrosie e desideri, pulsioni e battiti. Giusto così, bene così: tutto parte da una forza, la sua; perché da quando ha iniziato è riuscito a lavorare su di sé e sulla consapevolezza che lo contraddistingue.

D] Angelo, quando hai iniziato a fotografare e perché?

R] A diciassette anni, perché mio padre mi aveva regalato una Polaroid. Io la guardavo con sospetto, quasi sorpreso. In famiglia non c’era nessuno che fosse legato alla fotografia; tra l’altro, avevamo pochissime immagini ricordo. Era strano.

D] Lì è nata la passione?

R] Non da subito. Diciamo che è scoppiato un interesse: vedere all’istante quanto si era inquadrato e ritratto risultava affascinante. Il “fuoco sacro” ha preso corpo con la prima reflex, una Canon AE1. C’erano lo scatto, l’attesa, lo sviluppo: tutto molto attrattivo.

D] I tuoi esordi sono quindi analogici, con la pellicola …

R] Certo.

D] Qualche rimpianto circa l’analogico?

R] No, perché lo uso ancora: non per passione, ma quando ne ho voglia. C’è anche la possibilità, rara a dire il vero, che un cliente mi chieda di fotografare con quel linguaggio. Io lo faccio volentieri, preferendo però il medio formato.

D] Parli di linguaggio e non di tecnica o tecnologia, perché?

R] E’ così nella realtà. I tempi d’approccio sono diversi, la composizione, il formato quadrato. Cambia il senso della fotografia.

D] In pellicola usi il B/N o il colore?

R] Entrambi, da quel punto di vista non mi pongo dei limiti e nemmeno esprimo preferenze.

D] Questo vale anche per il digitale?

R] Sì, è ovvio.

D] Torniamo alla passione, che a un certo punto è nata dentro di te …

R] Già, è emersa scoprendo, sperimentando; giocando con qualcosa di misterioso.

D] Lo chiedo spesso: la passione è stata importante?

R] Fondamentale, direi. In fotografia occorre passione e curiosità. E’ da lì che si parte quando si decide di raccontare.

D] Angelo, hai avuto dei modelli ispiratori? Dei fotografi che hai amato a fondo per il loro lavoro e che sono riusciti a stimolarti?

R] Beh, all’inizio no; poi sono emersi i nomi quando ho iniziato a studiare. Te ne cito due, diventati poi un riferimento costante: Garry Winogrand e Lee Friedlander.

D] Lo studio presuppone dei libri: ne hai tanti?

R] Sono un collezionista: la mia biblioteca ne conta più di settecento, tra monografie e altro. Possiedo anche molti cataloghi di mostre.

D] Siamo curiosi, quale libro apriresti adesso?

R] Guardo spesso “Stems”, di Lee Friedlander. Siamo nel 1994, il fotografo aveva dei problemi alle ginocchia ed era costretto alla sedentarietà, fatto raro e difficile per lui. Ha così iniziato a guardare con attenzione i fiori freschi che sua moglie Maria era solita distribuire all’interno della loro dimora. A interessarlo particolarmente non erano però i fiori in sé; fedele al suo stesso stile, si trovò subito molto interessato ai loro gambi (stems, per l’appunto). Ha così concentrato le sue ottiche su di essi, ritraendo lo splendore ottico prodotto dalla rifrazione della luce attraverso i vasi di vetro che li contenevano. Potrei citarti anche il fotografo Pieter Hugo, che ha portato a termine un lavoro di ritratti dedicato a personaggi che giravano con delle iene a guinzaglio. Per finire, ecco “In The American West”, di Richard Avedon. Da quel libro ho tratto ispirazione per l’ultima campagna di Giorgio Armani.

D] Nelle foto che ci hai mandato, il tuo uso del fondale mi ha fatto venire in mente Irving Penn …

R] Grazie per il complimento: anche lui per me è un riferimento. Ha creato delle visioni fantastiche.

D] Angelo, come hai curato la tua formazione?

R] All’inizio sono stato autodidatta, come molti credo; poi ho cominciato a studiare. Ricordo un corso di fotografia presso Spazio Forma (con Maurizio Montagna come docente), un Master in fotogiornalismo e un altro in foto editing e ricerca iconografica, con Giovanna Calvenzi.

D] Angelo, fotograficamente come ti definiresti?

R] Documentarista, perché la fotografia documenta: nella moda, nel ritratto, persino per strada. Non sono un artista in senso stretto, ecco tutto.

D] Qual è una qualità necessaria per un fotografo come te?

R] Ogni autore deve possedere una visione e metterla in pratica, nella sua fotografia. La tecnica col tempo è diventata disponibile a tutti, oggi ancor di più. Le fotocamere ci restituiscono tanto. La visione è ciò che può distinguerci, è lì che un fotografo diventa un faro.

D] Visione o progettualità?

R] La visione t’impone una ricerca costante, che poi è quanto mi accade.

D] C’è tra le tue una fotografia preferita? Quella che ami particolarmente?

R] Non riesco a rispondere: forse qualche scatto eseguito a New York. No, sbagliavo: non ho una fotografia preferita. Non mi affeziono ai contenuti e le immagini non le percepisco come figlie mie. Non intreccio legami sentimentali con ciò che produco.

D] Ti occupi di persona della post produzione?

R] Curo personalmente tutto il flusso di lavoro. Nei casi rari nei quali affido il ritocco ad altri, sono comunque sempre presente.

D] Ha un’ottica preferita, che utilizzi più volentieri?

R] Il 28 mm, perché mi permette di essere presente. Bruce Gilden parlava di far “sentire l’odore del fotografo”.

D] Dopo tanti anni di carriera, c’è un progetto rimasto indietro e che vorresti portare a termine?

R] Sì, ne esiste uno, ormai terminato: Bartali e il Giro di Francia del ’48.

D] Quello che ha salvato l’Italia dalla guerra civile?

R] Già, proprio quello.

D] Da dove nasce un progetto del genere? E come l’hai strutturato?

R] Io nutro una forte passione per il ciclismo, contagiato da mio padre. Sono andato in Francia a scattare lungo il percorso di quel Tour. Volevo cercare degli elementi circa il passaggio del tempo: cosa vediamo oggi rapportato a quanto si poteva scrutare allora. Banalmente, cosa vedrebbe oggi Bartali se dovesse pedalare sulle stesse strade del 1948?

D] Hai una risposta?

R] Ci sto ancora lavorando. Tengo moltissimo a quel progetto, che diventerebbe un omaggio dedicato a mio padre. Non ho mai fatto vedere nulla per non sminuirne l’importanza.

D] Tu lavori in vari ambiti, tanti direi; sei anche un docente. Come fai?

R] Vivendo la giornata di 25 ore. Scherzavo. Con le giuste motivazioni si fa tutto.

D] Sei milanese d’adozione, dico male?

R] Già, vengo da Napoli.

D] Quella città ti ha offerto in dote delle particolarità che abbiano influito sulla tua persona o anche sulla visione delle cose?

R] Sicuramente ero, e sono, parte di qualcosa: appartengo a una cittadinanza particolare, per stile di vita, comportamento e molto altro. Quello che sono lo devo anche alla città partenopea, come il fatto di mettermi in gioco di continuo.

D] Un po’ come Cito …

R] Un grande amico!

D] Tu hai stretto amicizie con tanti fotografi, un atteggiamento che non è cosi frequente nell’ambiente, o almeno non pare …

R] Sì, forse è raro; ma io sento la necessità di confrontarmi col linguaggio dei colleghi, col loro modo di esprimersi.

D] Una curiosità: quando è entrata la street photography nella tua vita?

R] Da sempre, è un modo d’interagire col mondo. «Sta passando la vita», diceva Tano D’Amico.

D] Potessi dedicarti un augurio fotografico da solo, cosa ti diresti?

R] Vorrei rimanere creativo e curioso.

D] E qual è l’augurio che rivolgi alla fotografia?

R] Di rimanere sempre viva come oggi. Mi rifaccio alle parole di Giovanni Gastel: «La fotografia non è mai stata così importante, direi che nasce oggi. Da linguaggio è diventata lingua».





Buona fotografia a tutti

Angelo Ferillo

Angelo Ferrillo, note biografiche

Classe ’74, progettista e amante della fotografia dall’adolescenza, mi trasferisco da Napoli a Milano per continuare l’attività lavorativa primaria di Project Manager dopo gli studi in Ingegneria. Perfezione i miei studi fotografici, dopo i corsi primari presso l’accademia di Forma Fotografia, con un Master in Fotogiornalismo, un Master in Photoediting e Ricerca Iconografica ed un Master in curatela fotografica.

Entro a far parte del Direttivo dell’AFIP International (Associazione Internazionale Fotografi Professionisti) nel 2014, del quale sono stato anche Vice Presidente. La mia fotografia è stata definita da Giovanni Gastel “uno sguardo attento su quello che hanno dentro le persone”. Giurato e Presidente di Giuria per concorsi nazionali e internazionali, oltre che vincitore di vari concorsi fotografici sempre in ambito nazionale ed internazionale, al momento mi dedico principalmente all’evoluzione del linguaggio e alla visione fotografica, con approfondimenti e studi mirati.

La mia è una fotografia che basa la visione sulla volontà di lasciare documenti ben precisi nelle mani dei posteri e di catalizzare il passaggio del tempo in strutture progettuali che si altalenano tra eventi passati e milestone contemporanee. Questa mia a ricerca sul passaggio del tempo mi porta a realizzare lavori iconici su eventi storici come gli attentati di Parigi del novembre 2013 e il Tour de France del 1948.

Docente di fotografia nelle accademie IED Milano e RAFFLES Milano, docente di editing e ricerca iconografica per Creative Campus, docente di fotografia di strada presso Officine Fotografiche Milano, docente di progettazione fotografica e documentazione presso Foto Scuola Lecce, della quale è anche coordinatore didattico.

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