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Marcello Vigoni

”La parola è fondamentale. Con gli inglesismi stiamo riducendo le nostre capacità critiche. Oggi non c’è l’opposto."
FRANCESCO FRANCIA
| Mosè Franchi | GRANDI AUTORI

IL GIOCO DEI LIMITI

E’ stato piacevole il tempo trascorso con Marcello Vigoni, familiare. Visitando il suo studio, abbiamo riconosciuto i simboli del nostro esistere, le cose che ci caratterizzano: una cinepresa, una macchina per scrivere, una vecchia fotocamera, una targa con una via londinese; come a casa nostra. Le affinità attirano e siamo entrati più facilmente nella fotografia, la sua. Ci offre in dono un libro (grazie), che raccoglie il progetto presentato, in questi giorni, in una mostra a Spoleto: Multiverso. Lì Marcello ha indagato il rapporto tra paesaggio urbano e naturale, sovrapponendo negli scatti entrambe le dimensioni: quella umana e quella naturale, che riescono a trovare un equilibrio proprio.

Grazie alla contrapposizione estetica (surrealistica), i due universi coesistono in maniera armonica, attribuendosi vicendevolmente un significato nuovo. A noi piace andare oltre, però, con un po’ di coraggio e tanta presunzione, seguendo comunque le indicazioni dell’autore. Crediamo che le capacità di Marcello partano dall’idea, ma anche dalla capacità di identificare un limite, un confine. Anche lo strumento fotografico, per lui, possiede dei limiti, che possono essere complicazioni o difficoltà. I limiti vanno superati, però, perché è dall’altra parte che si scoprono ulteriori verità. Sotto questo profilo, le sue sovrapposizioni altro non sono se non la cristallizzazione di un confine, che chi guarda può riconoscere agevolmente, attribuendogli poi un significato proprio e ricavandone un’emozione personale. Ed è l’uomo a emergere, se pur guardante. A lui viene affidata la responsabilità di scegliere, decidendo tra qua e là, tra questo e quello. Una risposta armonica sarebbe preferibile, ma non si può avere tutto: almeno non subito. Ci sarà tempo, per quell’uomo che guarda; anche solo per comprendersi. La vita, del resto, ci pone di fronte spesso al gioco dei limiti, come le fotografie di Marcello.

D] Marcello, quando hai iniziato a fotografare e perché?

R] Non ricordo, direi da sempre. Scattavo in famiglia per esprimere il mio punto di vista, ritraendo i momenti felici. Considera che i miei nonni si dedicavano all’immagine, tra video e fotografia.

D] La tua è stata passione per la fotografia?

R] Sì, assolutamente. La fotografia non può rappresentare unicamente un lavoro, soprattutto oggi. Ricordo con affetto un amico che è riuscito a ispirarmi, aiutandomi. Lui si dedicava allo Still Life, un genere difficile e molto tecnico. Peraltro fotografava metalli. Oggi quel tipo di fotografia non esiste più. L’immagine scattata necessita di un autore che la supporti; le alchimie tecniche, per quanto raffinate, non offrono sbocchi. Per questa ragione sostengo che i corsi non abbiano un senso.

D] Come hai curato la tua formazione?

R] Sono autodidatta. Libri e passione, questa è stata la ricetta della mia formazione; passione dedicata non solo alla fotografia, ma anche ad altri ambiti: psicologia, sociologia, filosofia. Se non ci fosse stato tutto questo, la mia pratica dello scatto sarebbe fine a se stessa.

D] Fotograficamente, come ti definiresti?

R] Non mi definirei. Roberto Mutti ha detto che la mia fotografia sfugge alle caselle. Del resto, non so neanche se definirmi fotografo, anche perché sono abituato a osservare autori che utilizzano lo strumento per descrivere cose concrete. Io ritraggo un’idea: forse sarebbe meglio definirmi poeta.

D] Quale è la qualità più importante necessaria per fotografare come te?

R] Creare emozione in chi osserva le fotografie. Il ruolo che hanno i miei lavori è quello di stabilire un dialogo tra me e chi li guarda. Da pubblicitario, lascio che il messaggio del contenuto lo descriva l’osservatore.

D] Prima, ho dimenticato di chiederti: la passione è importante?

R] Certo, rappresenta il motore di tutto: qualsiasi cosa si faccia. Freud diceva che anche la sessualità ha bisogno della passione.

D] Tu lavori in analogico, com’è nata questa scelta?

R] La conoscevo sin dalla scuola, poi sono arrivato a preferirla. Il digitale è efficiente e veloce. L’analogico mi ha fatto comprendere la lentezza e l’errore, il che mi ha permesso di andare oltre.

D] Perché operi col medio formato?

R] Diciamo che ho scelto il formato quadrato. Il 35 mm, inferiore per qualità, è dinamico, può raccontare il movimento. Io volevo bloccare l’osservatore. Sono convinto che il fotogramma quadrato e la qualità che consente siano funzionali a quello che faccio. Le mie fotografie sono piene di dettagli. Michael Kenna mi ha ispirato tanto.

D] In effetti, nelle tue immagini la formalità scompare …

R] Conosco la regola dei terzi, ma non la uso. Del resto, tendo a infrangere le regole, ad andarci contro.

D] Anche con la sperimentazione?

R] Certamente.

D] Da dove nasce il tuo metodo sperimentale?

R] La mia sperimentazione trae origine dall’intuizione: quella dello scatto, ma anche quella chimica, da Camera Oscura. Là spingo gli strumenti laddove vorrei arrivare. Mi è capitato spesso, con i provini a contatto, di scorgere delle sovrapposizioni casuali che andavano oltre a ciò che stavo cercando. Quando si sperimenta, e si entra in sintonia con la ricerca, bisogna essere consapevoli che qualcosa può accadere, anche d’inaspettato. Non si può avere il controllo su tutto.

D] Hai avuto degli elementi ispiratori?

R] Tanti, Gilbert Garcin e Paolo Ventura tra questi. Aggiungerei Maurizio Galimberti, anche lui ha sperimentato il mezzo.

D] Una curiosità: secondo te, il pittorialismo era sperimentazione?

R] Era un punto di partenza. Il paesaggio veniva esplorato dalla pittura e occorreva partire da lì. Oggi, nel mondo dell’immagine, è la fotografia che deve cambiare.

D] In fotografia le contaminazioni sono importanti?

R] Fondamentale. Ogni autore deve contaminarsi, perché la fotografia è un’arte come le altre.

D] Tu credi che la fotografia possa considerarsi un’arte?

R] Sì, assolutamente. E’ un linguaggio espressivo alla stessa stregua della musica o della poesia. Quando un uomo esprime se stesso frequenta l’arte.

D] Visto l’ambito del tuo lavoro, è difficile chiederti se tra le tue esista una fotografia preferita …

R] Forse quella che varrà domani, assolutamente. Preferisco anche l’ultima realizzata, anche perché, se non fossi soddisfatto, cestinerei tutto.

D] C’è nel tuo corredo un’ottica che utilizzi preferenzialmente?

R] No, la scelta è funzionale a quello che faccio. Oggi preferisco il formato quadrato, domani non so. I grandi artisti hanno sviluppato tanti linguaggi.

D] La fotocamera fa il linguaggio?

R] Direi che rappresenta la penna con la quale si scrive.

D] Molti affermano come la fotocamera possa rappresentare una complicazione …

R] Concordo, ma dalla stessa emerge dell’altro. C’è sempre un limite, negli strumenti; però occorre andare oltre. Molti pittori l’hanno fatto ed è per quello che siamo in grado di comprendere l’idea esistente dietro il pennello. Del resto, anche la lingua (o il linguaggio) ha il suo limite ed è quanto l’uomo, oggi, deve affrontare.

D] Posso aggiungere che oggi il limite è nella parola?

R] La parola è fondamentale. Con gli inglesismi stiamo riducendo le nostre capacità critiche. Oggi non c’è l’opposto.

D] Le tue fotografie non sembrano partire da un progetto …

R] Nascono da un’idea.

D] C’è tanta materia nelle tue immagini …

R] C’è il muro e la sua alternativa, lo spazio che limita e l’idea opposta. Penso di riuscire ad abbattere quel muro: un altro limite da valicare, come tanti; come il confine tra uomo e natura.

D] Potessi dedicarti un augurio fotografico, cosa ti diresti?

R] E’ difficile rispondere: il rischio è diventare materiale. Vorrei che la fotografia venisse riconosciuta come una forma d’arte, percepibile attraverso gli autori.

D] Il tuo è un augurio dedicato alla fotografia …

R] Vero. Per quel che mi concerne, l’augurio che mi faccio è quello di riuscire a emozionare.

D] Oggi si sente parlare spesso di emozioni, in vari ambiti; quasi ve ne sia la mancanza …

R] Non so rispondere, così: su due piedi. Direi che vi è una penuria culturale, il che determina un calo delle emozioni.

D] Marcello, di solito chiudiamo con gli auguri. Concedici però un’ultima domanda: Milano e il tuo mestiere di pubblicitario hanno influito sulla tua fotografia?

R] La pubblicità crea esigenze, una dopo l’altra; io ho voluto percorrere la strada contraria e l’emozione ne vorrebbe essere il punto d’arrivo.





Buona fotografia a tutti

Marcello Vigoni

Francesco Francia, note biografiche

Francesco Francia è un fotografo pubblicitario ed un fotografo ritrattista che lavora nell’ambito della fotografia di moda, ritratto istituzionale, fotografia commerciale, glamour e still-life. Realizza servizi per campagne pubblicitarie che segue fin dalla fase progettuale: cataloghi aziendali, look book, editoriali moda, copertine, advertising per agenzie pubblicitarie, ritratti istituzionali per personaggi pubblici, foto destinate ad ogni forma di utilizzo commerciale tra cui advertorial per pubblicazioni su riviste moda e luxury.

Grazie alla precedente esperienza nel marketing strategico aziendale, segue i suoi clienti dall’ individuazione del target di riferimento alla progettazione della campagna pubblicitaria fino alla fase attuativa, lavorando a stretto contatto con l’art director o il fashion editor per la definizione del moodboard e dello storyboard. Segue molti clienti nella comunicazione esterna mantenendo sempre coerenza con il concept brand.

Tra gli ultimi lavori di ritrattistica: Progetto Scienza senza Frontiere per l’Istituto Superiore di Sanità e Calendario 2020 della Forza Speciale del G.I.S. per l’ Arma dei Carabinieri.

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