”Sono un ritrattista reporter, che inserisce il soggetto nel contesto. La curiosità, comunque, mi ha portato altrove e dopo quattro o cinque anni sentivo la necessità di cambiare. A cinquant’anni non potevo più fotografare sotto un palco. Ritratti tutta la vita."
RENZO CHIESA, IL RITRATTO E OLTRE
Conosciamo Renzo Chiesa per una fotografia di Lucio Dalla, quella che gli abbiamo chiesto per il sito di Image Mag. Da lì in poi si è aperto un orizzonte ampio, ricco di scoperte sulle sue fotografie e circa l’impegno che ha profuso dietro l’obiettivo e non solo. Nasce in campagna, Renzo; in un paese che ti costringe a guardare lontano per via della pianura. Ci piace iniziare così, perché forse lì è sorto il suo atteggiamento nei confronti dell’esistenza da vivere, comprese le ambizioni da poter pretendere.
In lui riconosciamo una mentalità contadina, quella buona per intenderci: dove l’impegno viene al primo posto, in anticipo rispetto alle richieste. Ecco che il suo racconto diventa quasi un romanzo, tra treni che passano e opportunità da cogliere, con anche quella camera oscura dove si rifugia per stampare e comprendere, di continuo. E poi arriva la musica, per lui un fiume in piena, un ambito da esplorare a fondo, con cura. Non si ferma, comunque; e nemmeno cambia atteggiamento. Perché quella pianura dov’è nato gli ha suggerito di essere osmotico, percettivo, pronto ad ascoltare consigli e insegnamenti. Del resto, cosa avrebbe potuto fare? Come obbedire ai sogni espressi da bambino di fronte ai documentari di una TV in bianco e nero? Voleva diventare regista, Renzo; ma per esaudire quel desiderio occorreva l’ambiente idoneo, la relazione, l’interagire col mondo altrui con generosità, senza pretendere peraltro. E allora, ecco i suoi ritratti, ambientati a dovere, inseriti nel contesto che meritavano. Il regista si manifestava lì e la curiosità lo spingeva altrove, dove venivano meno le note musicali: il food, gli interni degli artisti, la pubblicità. Si è divertito, Renzo, questo ci suggerisce. Voleva il mondo oltre la pianura e forse l’ha raggiunto, ritraendo persone e non solo. Giusto e bene così.
D] Renzo, quando hai iniziato a fotografare?
R] Molto presto, a quindici anni. Ritraevo i parenti, addirittura mettendoli in posa; magari col vestito buono: gli uomini in camicia bianca e il nonno con le medaglie della prima guerra. Mio padre comprò la prima TV nel 1958, l’anno in cui Roncalli divenne Papa (Giovanni XXIII), così iniziai a guardare i documentari sul CGE in bianco e nero. Amavo quelle trasmissioni e cresceva in me il desiderio di diventarne l’autore. Viaggi, paesaggi, animali, popolavano la mia fantasia. A Milano mi sono iscritto a un corso serale di fotografia e grafica, poi ho frequentato la scuola Cova, in corso Vercelli. Non ero informato, ma intuivo che la grafica potesse aiutarmi in fotografia.
D] La tua è stata passione per la fotografia?
R] Sì, certamente. Mio padre aveva una fotocamera a ottica fissa, un oggetto subito interessante. Ho iniziato con quella, producendo anche le prime immagini dei personaggi musicali. A diciassette anni lavoravo presso il laboratorio fotografico di Mondadori. Facevo il fattorino, ma nei momenti liberi andavo in camera oscura. C’era Epoca al tempo ed io ero lì durante la guerra dei sei giorni: arrivavano i rullini in una frenesia emozionante. Mi sono impegnato molto e ho convinto mio padre ad affittare un piccolo box per installarvi la camera oscura.
D] La camera oscura ha impegnato la tua carriera?
R] Certo, l’ho sempre posseduta, fino a quando non ho venduto lo studio. Stampavo il mio archivio. Nelle giornate buone, entravo al mattino e uscivo a notte inoltrata. Era una goduria, il terminale di un percorso: 55 micro nikkor, Tri X 400 (tirata a 800) e D 76 diluito 1:1. Avevo il mio essiccatore. Lavavo le fotografie, poi le passavo al ferro cianuro, pulendo i bianchi e aprendo i neri. Disponevo anche di una smaltatrice, che però usavo a freddo, perché le stampe rimanessero lisce. La carta ovviamente era baritata, preferenzialmente Kodak.
D] La camera oscura ha un suo fascino, è un po’ l’antro di Merlino …
R] Vero, ma i giornali volevano le dia.
D] Com’è stato il tuo rapporto con l’editoria e il mercato discografico?
R] La mia carriera è passata dal Fronte Popolare, dove mi occupavo delle interviste ai musicisti. Quella fase è servita a farmi vedere. Dopo c’è stato “Uomo mare”, con i ritratti e le immagini delle barche. La musica è arrivata col tempo. Collaborando con Condé Nast, producevo dia che ritraevano i musicisti. Ho così iniziato a seguire i concerti, scattando a colori e in bianco-nero. Un giorno mi trovo a conoscere Nanni Ricordi, che aveva aperto la sua casa discografica, l’Ultima Spiaggia, distribuita dalla RCA. Mi disse: «Devi fare la copertina del disco di Paolo Conte», dandomi anche una cassetta perché potessi trarne ispirazione. Quella cover è stata la prima importante, alla quale sarebbero seguite quelle di Jannacci e Dalla. Ovviamente, per lavoro frequentavo anche l’ambiente industriale, sempre col ritratto.
D] Torniamo alla passione: è stata importante?
R] Non mi ha mai mollato. Ho anche fotografato per me, e continuo a farlo adesso, in Sardegna, ritraendo in digitale le spiagge dopo le mareggiate. Porto a casa le canne che trovo là e le interpreto fotograficamente, dopo averle asciugate.
D] La Sardegna come rifugio, quindi …
R] Ho iniziato a recarmi in quell’isola dopo aver venduto lo studio.
D] Dov’era il tuo studio?
R] Ne ho avuti tre, tutti a Milano: l’ultimo in via Pavia. Col tempo, però, lo studio ha perso la sua importanza. Le personalità andavano fotografate a casa loro o dove operavano frequentemente.
D] Qualche rimpianto per la pellicola?
R] Sì, nel senso che mi piacerebbe avere ancora la camera oscura e usarla per me. Si tratta di un sogno irrealizzabile. Ai tempi, avrei dovuto usare il mio studio come laboratorio, ma non sarebbe riuscito a finanziarsi. Rammento comunque anche i medi e i grandi formati: 6X6 e 10X12; un bel ricordo.
D] Fotograficamente, come ti definiresti?
R] Diciamo che sono un ritrattista. Mi occupavo di ritratti anche quando lavoravo nella pubblicità, perché c’era sempre un personaggio da mettere su pellicola. Si trattava comunque di uno scatto vero, necessario.
D] Vedo molti ritratti ambientati, dico male?
R] Sono un ritrattista reporter, che inserisce il soggetto nel contesto. La curiosità, comunque, mi ha portato altrove e dopo quattro o cinque anni sentivo la necessità di cambiare. A cinquant’anni non potevo più fotografare sotto un palco. Ritratti tutta la vita, certo; ma per quattordici anni mi sono occupato di food. Ho anche realizzato un libro con uno chef stellato (otto mesi per produrlo), poi ho chiuso per stanchezza. L’ultimo lavoro in quell’ambito è stato “Mangiare da cani”, dove il padrone si cibava come il suo amico fidato.
D] Che dire? Hai fotografato un po’ di tutto …
R] Proprio tutto, no; sarebbe esagerato dirlo. Per un certo periodo ho fotografato gli interni delle case degli artisti. Diciamo che girare il mondo è stato un mio traguardo. Ho sempre voluto divertirmi, documentando ciò che mi piaceva. Adesso sto lavorando sul materiale dell’archivio, con l’intento di pubblicare un libro con dei “non musicisti”.
D] Qual è la qualità più importante per un fotografo come te?
R] Mettersi a disposizione di chi si ha davanti e conoscerlo: leggendo un suo libro o guardando un film che lo riguarda. Il mio soggetto deve essere il protagonista e lo farà vedere nel risultato finale. Del resto, i ritratti si costruiscono un po’ e la persona fotografata va indirizzata nella giusta direzione. Prima di scattare occorre far sì che si senta a suo agio. Credo che tutto questo rappresenti quello che era il mio sogno in gioventù: fare il regista. Ricordiamolo, però, l’immagine scattata non ha bisogno di didascalie: questo deve essere un traguardo.D] Renzo, hai avuto degli elementi ispiratori? Dei fotografi che hai ammirato molto?
R] Certo, come no. De Biasi, un idolo allora, era ai vertici in Epoca e là incontravo altri fotografi, Alfa Castaldi tra questi; ma la moda non era nelle mie corde. Ammiravo molto Giuseppe Pino, per il quale ho fatto da assistente durante quattro anni. Poi ci sono i grandi: Avedon, Penn, Weber, senza dimenticare Diane Arbus. Loro hanno fatto di tutto, ma anche ritratti. Hanno segnato la mia strada.D] Come hai curato la tua formazione?
R] Fondamentalmente sono autodidatta. Diciamo che ho letto molto e frequentato mostre. I libri di Avedon mi hanno aiutato, così come i consigli di Alfa Castaldi, un altro ritrattista. Da Pino ho appreso l’utilizzo della luce naturale. Gli incontri sono stati importanti, educativi da un punto di vista fotografico, anche se i libri hanno assunto un ruolo fondamentale. Ne possiedo tanti.
D] C’è, tra le tue, una fotografia preferita? Una che ami particolarmente?
R] Certo, io sono amico di Paolo Conte, il che mi fa preferire i suoi ritratti. Tra l’altro, ho prodotto due copertine dei suoi dischi. Mi diceva: «Le fotografie vanno messe in un cassetto e tirate fuori l’anno successivo». Tra le preferite c’è anche l’immagine che ritrae Lucio Dalla.
D] C’è un’ottica preferita? Un obiettivo che usi volentieri?
R] Inizialmente preferivo il 55 mm micro Nikkor, anche se in quel periodo i soldi erano pochi e non potevo certo ambire a tante ottiche. Erano i tempi durante i quali non si usavano gli zoom, a tutto vantaggio delle ottiche fisse. Oggi le cose sono cambiate, le focali variabili risultano essere utilissime. Tornando alle preferenze, col tempo sono passato al 35 mm, per poi approdare al 20 mm, che mi consentiva di catturare meglio l’ambiente attorno al soggetto. Grandi tele non ne ho mai usati, se non durante i concerti.
D] Dopo tanti anni di carriera, c’è un progetto rimasto indietro e che vorresti portare a termine?
R] Devo dire la verità: tutto è successo passo dopo passo. Il progetto, da giovane, era quello di diventare fotografo. Le prospettive si presentavano nebulose e forse non sono riuscito ad approfittare di tutte le opportunità che mi sono capitate, anche se in altre occasioni ho preso il treno al volo. Grandi progetti? Adesso potrei suggerirti la musica.
D] Anche la musica è una tua passione?
R] Sono nato in campagna, a Casalmaggiore sul Po, un comune situato tra Mantova e Cremona, anche se poi ci affacciavamo preferenzialmente su Parma. Mio padre, come da tradizione, suonava la fisarmonica; io ho studiato un po’ di pianoforte. Ecco, quello è un progetto da portare a termine.
D] Curi personalmente il ritocco?
R] Scatto in digitale con la stessa testa che utilizzavo ai tempi della pellicola. Il ritocco lo faccio io, ma è molto debole, assolutamente non intrusivo, se non in rare occasioni. Le mie fotografie devono essere naturali. Dimenticavo: anche con Photoshop sono autodidatta.
D] Potessi dedicarti un augurio fotografico da solo, cosa ti diresti?
R] Mi piacerebbe essere l’assistente di Richard Avedon, o magari di Bruce Weber che è ancora vivo. Ogni giorno s’impara qualcosa di nuovo, particolarmente con i grandi.
D] Concedimi una domanda non fotografica. Dovessi ascoltare un disco, cosa metteresti sul piatto?
R] Probabilmente ascolterei un disco tra questi: “Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band” dei Beatles, uno qualsiasi di Paolo Conte, “Anime salve” di Fabrizio De André e l’ultimo album di Bob Dylan.
Buona fotografia a tutti
I GRANDI AUTORI
Renzo Chiesa
Renzo Chiesa, note biografiche in prima persona
Cremonese di nascita, 1951, milanese d’adozione dal 1961. Milano la città dello studio, dello sviluppo e crescita professionale. La passione dell’immagine era già nata, alla fine anni cinquanta, dopo l’acquisto in famiglia del primo televisore.
Dopo studi regolari, il primo approccio al mondo fotografico c’è stato con l’inserimento nel laboratorio fotografico all’interno della Arnoldo Mondadori nella storica sede di via Bianca Maria di Savoia. Poter vedere da vicino il lavoro dei vari fotografi, inviati in tutto il mondo, da zone di guerra, a spettacoli musicali e teatrali, foto di moda e bellezza, ha fatto esplodere la voglia di fare questa professione. Fù anche la fortuna di lavorare alla Mondadori che mi fece conoscere il dott. Polillo, dirigente e organizzatore del Festival Internazionale del Jazz al Teatro Lirico. Questo mi permise di fotografare tanti grandissimi del jazz, da Duke Elligton, a Ella Fitgerald, da Nina Simone a Miles Davis.
Passaggio successivo fu fare l’assistente in studi fotografici professionalmente diversi, e più tardi, l’apertura del proprio studio. La collaborazione con case discografiche è iniziata presto. Avevo un desiderio, realizzare tre copertine di artisti che amavo, Lucio Dalla, Paolo Conte e Enzo Jannacci. Fatto questo volevo dedicarmi ad altri settori, invece la popolarità dei tre artisti mi portò ancora di più lavoro nel campo discografico. Il ritratto è sempre stato il mio obiettivo. A questo proposito si era sparsa la voce che portavo fortuna ai candidati alle elezioni, di cui avevo fatto il ritratto. Furono tutti eletti.
Le collaborazioni iniziarono anche con grandi editori, Mondadori, Rizzoli, Abitare Segesta. Varie le testate con cui ho collaborato, da Panorama, a Costruire, Max, Amica, Casa&Country, AD, Musica Jazz, Suono, Prog, Classic Rock. Questo mi ha permesso di fotografare grandi artisti, architetti, scrittori, attori e chef in giro per l’Italia e il mondo. Da cinque anni sono anche il fotografo ufficiale della Rassegna Tenco, della canzone d’autore, che si svolge al Teatro Ariston di Sanremo.
Ho anche organizzato varie mostre che ho esposto a Milano ai Frigoriferi Milanesi, alle gallerie d’arte Eroici Furori e Head Quarter, a Pavia al Broletto, a Parigi in una mostra omaggio a Jimi Hendrix e la collettiva Obiettivo Rock. “Noi, non erano solo canzonette”, ultimo impegno, una mostra itinerante, dove il mio contributo va da un reportage giovanile a Londra nel 1969, alla contestazione anni settanta/ottanta milanese a una serie di grandi della musica italiana, da Mina a Gaber, da Demetrio Stratos a Fabrizio de André, da Francesco Guccini a Lucio Dalla.